Su Netflix il film con Julia Roberts e Mahershala Ali e prodotto da Michelle e Barack Obama. Uno sguardo su una società mangiata dalla paura e inchiodata alla Rete
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Il romanzo di Rumaan Alam “Il mondo dietro di noi” (titolo originale "Leave the world behind" cioè "Lascia il mondo alle spalle") in Italia edito da La Nave di Teseo, è stato il caso editoriale del 2020 (anno giusto per sfornare distopie e recuperare quelle del passato): finalista al National Book Award, best seller per “The New York Times” e libro dell’anno per “Time”, “The Washington Post”, “The New Yorker”.
Bene. Il sole risplendeva. Lo presero come un segno propizio – la gente trasforma qualsiasi cosa in un presagio. Era come se tutto dicesse che non ci sarebbero state nuvole all’orizzonte. Il sole era al suo solito posto. Il sole persistente e indifferente.
Incipit da "Leave the world behind"
Inevitabile, data la sfumatura apocalittica che colpisce duro l'America-bene abituata a ronfare nei suoi villoni con la boiserie ton-sur-ton, a mangiare super-bio, fumare di nascosto e ignorarsi negli ascensori, che finisse nelle maglie di un colosso dello streaming, in questo caso Netflix che l’ha prodotto e distribuito per questa coda d’anno.
Il film porta la regia di Sam Esmail (il padre di “Mr. Robot”), che si concede qualche libertà soprattutto sui protagonisti scegliendo, al posto di una coppia di anziani, un padre e una figlia, a cui tocca tendere i fili della tensione per due terzi dell’opera. Tra complottismo ed egoismo (le due cose vanno a braccetto), la paura della fine s’accompagna all’indifferenza per il mondo reale che circonda i protagonisti rinchiusi nelle proprie paure e frustrazioni, legati mani e piedi a una tecnologia che se viene meno riduce le persone a scarafaggi voltati in una pozza.
All'escatologia si predilige lo sbadiglio davanti a temi filosofici connessi all'esistenza e alla sua fine, la discussione è sempre rissa, la parte della ragione sempre troppo affollata e se c'è da salvare la pelle meglio sparare. Nulla importa, solo controllare se «c'è campo» al cellulare perché fuori dal campo c'è impotenza e un mondo ostile, quasi preistorico, dove gli umani rabbiosi e annoiati, sono destinati a estinguersi per autocombustione.
Apocalisse & "Friends"
Nel film seguiamo le vicende di una famiglia newyorchese, benestante. Una moglie, Amanda (Julia Roberts), un marito, Clay (Ethan Hawke) e due figli (un’adolescente e una ragazzina), fanno le valigie e partono per un week end in solitudine in una magnifica villa a Long Island.
La moglie odia la gente, per sua stessa ammissione, suo marito non ha polso né carattere, il figlio maggiore non ha interessi, la figlia si rinchiude nell’unico mondo in cui si sente accettata, quello della serie Friends che guarda con avidità fino alla penultima puntata quando, d’improvviso, la connessione internet si spegne per tutti. Per sempre.
Due sconosciuti alla porta
Strani accadimenti iniziano a guastare quella che doveva essere una vacanza tranquilla fuori città: una nave perde il controllo, strani velivoli solcano i cieli distribuendo volantini intraducibili. Nel cuore della notte, poi, due persone bussano alla porta: sono un padre e una figlia, dall’aria distinta. Sostengono di essere i proprietari della lussuosa casa e informano i coniugi che in città è scoppiato il caos a causa di un black out. Nessuno può verificare quelle informazioni, tutti sono come sospesi tra la paura che stia avvenendo sul serio qualcosa di grave e il rifiuto di considerare l’idea.
Uno sguardo ai maestri greci
Retto da una colonna sonora incalzante, da un montaggio alternato serratissimo, con arie del buon Shyamalan (quello d’un tempo) che volteggiano tra le inquadrature al rovescio e la fotografia cupa di branchi di cervi in fuga, tra il complottista laureato all’Università della strada (Kevin Bacon) che l’Apocalisse la aspetta col fucile carico da bravo buono a nulla e pronto a tutto (Longanesi dixit), e la presa di coscienza che tutto sta cambiando, si srotola con lentezza calcolata una verità che si svela piano agli occhi dei protagonisti come degli spettatori stessi. Le domande si rincorrono da una parte all'altra dello schermo, come in uno split screen tra realtà e finzione: sarà vero? Gli hacker hanno immobilizzato il Paese? Si tratta di un colpo di Stato? È solo una burla? I due alla porta mentono? Sono dei serial killer? Sono chi dicono di essere?
Esmail dimostra di saperci fare, si diverte a lavorare con gli effetti digitali e a infilarsi con l’obiettivo ovunque: dall’esterno dell’auto all’abitacolo per poi fluttuare via, lontano, e tornare dalla finestra e donare piani lunghi segati di proposito per dare maggiore aria allo spazio, più che alle persone. Scelte di stile, messaggi subliminali, che aumentano lo stordimento. Più vicino a Lanthimos e Avranas che ad Hitchock, con una punta di cinema nordeuropeo d'essai per le parti più stranianti, il film a tratti sembra che manchi di qualcosa e che inciampi in luoghi comuni troppo battuti (il monologo della Roberts sulla società), ma senza cadere nel fango.
II regista capovolge, più e più volte, l’inquadratura per regalare un senso di vertigine e confusione in chi guarda, aumentato dal ritmo di una musica che pare il palpito di un cuore malato, confonde le acque e mette in discussione il raziocinio dei protagonisti che si scoprono inermi davanti all'ineluttabile, confortati solo dalla culla mediatica che li scalda nel jingle di un telefilm famoso, mentre tutto crolla.