“Gli Spiriti dell’Isola” (The Banshees of Inisherin) è uno strano caso. È l’osservazione di un elefante enorme che appare chiaro in sospensione solo alla fine, quando la storia s’è già sollevata in quota a sufficienza per mostrarti di cosa vuol davvero parlare. Martin McDonagh fa quello che sa fare meglio, racconta il dolore passando per una via laterale che sembra allontanarsi dal centro ma in realtà ci punta contro e in modo chirurgico.

L’ha fatto con “Tre manifesti a Ebbing Missouri”, lo fa anche qui dove non c’è la contea americana delle road impolverate del Midwest a saziare la sofferenza di una madre, ma l’orizzonte ampio e ventoso delle coste d’Irlanda che nascondono, ma solo alla vista, le bombe di una guerra così lontana e così vicina. Il film, ab origine, era parte di un lavoro teatrale, terza parte della "Trilogia delle Isole Aran" (Lo storpio di Inishmaan e Il tenente di Inishmore) con molti punti di contatto con The Banshees of Inisherin per la presenza di caratteri che ripercorrono archetipi comuni alla cultura irlandese non scevri di sfumature di nera inquietudine.

La fine di un'amicizia fraterna

Quello che McDonagh racconta nel film (ora disponibile, dopo il passaggio in sala, su Disney Plus), all’apparenza, è la fine di un’amicizia. Una rottura che comincia come un banale moto dell’anima unilaterale, una scelta umorale destinata a non avere lunga durata. Non sarà così. Da quello strappo si arriverà a una lacerazione profondissima e violenta, travolgente quanto insensata

L’isola di Inishering, fazzoletto di terra tra le acque, immaginaria e simbolica (il nome si traduce in “isola irlandese” dando già una traccia del simbolismo che permea tutto il racconto), è il confine entro cui si muovono le vite di un pugno di abitanti. Gente semplice, abituata a una quotidianità fatta di piccole cose: le bestie al pascolo, la messa, la strada brulla che conduce all’unico pub in cui scolare una pinta di birra scura per parlare di bestie al pascolo, di messe, della prossima serata da trascorrere esattamente lì dove già si è. L’infelicità pare non abiti da quelle parti, seppellita dal lavorìo che fa di ogni giorno uno identico al precedente in un'anestesia totale che rende la comunità un'isola non solo geografica ma anche mentale.

Un dito per ogni parola

Il tempo così scorre, fino a quando qualcuno si ridesta dal torpore in modo sconnesso e violento. Così accade a Colm Doherty (Brendan Gleeson) a cui non va più a genio, così dice lui, l’amico fraterno Pàdraic Súilleabháin (Colin Farrell). Non è una rottura figlia di una lite, un’incomprensione, un equivoco, una parola fuori posto. Semplicemente qualcosa dentro Colm è cambiato. L’incantesimo che ha come addormentato gli abitanti dell’isola, limitandone le ambizioni a questione spicciole e rurali, in lui si è esaurito mostrandogli quanto poco sia destinato a lasciare su questa terra alla fine di un'esistenza trascorsa senza scopi. Improvvisamente quelle chiacchiere, su asini e galline, gli pesano come una zavorra che lo àncora a una vita grama. Nonostante le sue intenzioni ferme, interrompere una relazione affettiva non è cosa da poco e priva di strascichi indolori. Pàdraic si ribella, insiste, cerca di riallacciare il suo legame con Colm il quale arriva all’extrema ratio e promette davanti a tutti che ogni volta che il suo vecchio amico proverà a parlargli, lui si taglierà un dito della mano.

La comunità, sonnolenta e poco avvezza a rivolgimenti, in cui solo la sorella di Colm culla il sogno di prendere il battello e rincorrere una vita diversa, non comprende le ragioni di quella nuova ostilità tra due persone fino al giorno prima unite come fratelli. In qualche modo, preso dalle proprie consuetudini, il villaggio non fa che assistere passivamente a un crescendo di violenza inspiegabile. Colm giustifica la propria scelta con la voglia di concentrarsi solo su qualcosa che lo possa elevare: la scrittura di una partitura per violino da lasciare ai posteri. Allo stesso tempo, mentre mette anima e corpo in quel progetto, è anche pronto a sacrificarlo senza battere ciglio, pur di dimostrare a Pàdraic che fa sul serio, procedendo a una progressiva e implacabile amputazione delle dita. 

"L'inferno sono gli altri"

Alla disperazione, sempre più intensa, di Pàdraic, uomo buono, dall’animo gentile, sempliciotto ma soddisfatto della routine e senza grilli per la testa, fa da contraltare l’atteggiamento di Colm il quale, va detto, non nutre alcun odio nei suoi confronti, tutt’altro, solo ne respinge la presenza. Come diceva Sartre “l’inferno sono gli altri”, ed è per questo che Colm vede in Pàdraic le colpe del fallimento della sua vita inutile, trascorsa senza scopi. Escludendolo, crede che riuscirà ad sollevarsi dalla sua misera esistenza.

Mentre in lontananza, sulla terraferma, la battaglia tra irlandesi, una volta uniti e ora nemici, si fa sempre più cruenta, sull’isola una vecchia, considerata megera, si aggira per i sentieri annunciando sventure. Lo spirito del male, entrato nelle vene degli abitanti come un tarlo, rosicchia le coscienze e miete vittime innocenti incapaci di sfuggire al giogo delle colpe altrui

McDonagh ci offre una strepitosa metafora della società, pervasa dall'egoismo, in cui l'autoaffermazione finisce per triturare le vite degli altri, quelle più deboli, e a insinuarsi in esse come un virus che distrugge e uccide. Non c’è gloria nella battaglia quando non ci sono ideali puri e altruistici da perseguire. Tutti perdono, irrimediabilmente, mentre il sangue scorre senza che nessuno sappia più il perché.