Gli esordi a teatro, una filmografia imponente, storia di un attore gigantesco che con Comencini adottò una generazione di bambini che ancora credono alle favole
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«Era l’unico attore che poteva parlare con un burattino». Così disse Luigi Comencini parlando di Nino Manfredi. Sono trascorsi cento anni dalla nascita di un «attore drammatico che vedeva le cose con ironia», così disse parlando di sé. Perché Manfredi nacque attore quando ancora non sapeva di esserlo e divenne genitore di una comunità immensa di figli con la scrima di lato e i calzoni corti, lasciando scivolare gli occhialetti storti sulla punta del naso, con le mani sul viso stralunato dalla meraviglia, il grembiale stropicciato.
Nacque padre di un tocco di legno di catasta, che aveva quel ramo volto alla porta sbattuta da un vento di tramontana che, anche oggi, entra nelle ossa degli spettatori, come fossero lì, a stringersi nello scialletto, a rabbrividire del ghiaccio e del filo gelido di acqua che cola in una tinozza di latta.
Nino Geppetto aveva questi capelli baruffati, la schiena un po’ curva per il sonno consumato sulla tavola dura, che chiamava letto benedicendone l’inventore, sotto una finestrina che rifletteva una notte virata del blu del cinema. Da lì, Manfredi, diventò per davvero quella che, per generazioni, è rimasta l’incarnazione perfetta di un immaginario sfolgorante e intimo.
Nella sua lunga carriera, Manfredi, di maschere ne ha indossate tante, cresciute con lui e il suo viso delicato, come appena rasato, che modellava al carattere dei panni da indossare e trasmutava nel baffo dolce o più rigido, nelle guance glabre o spunzonate di carestia.
Entrò all’Accademia d’Arte Drammatica con una borsa di studio di duemila lire al mese, «una pacchia per me che non c’avevo un soldo». Per arrivare ai corsi, si infilava nel tram sbagliato, fingendo l’errore con il controllore e tenendo un occhio alla fermata a cui scendeva senza biglietto.
Agli esordi era troppo bravo per il cinema dell’epoca che cercava facce di gesso prima di capire che il corpo che insegnavano a usare in teatro, era elemento fondante del sacro fuoco della recitazione anche sullo schermo.
Brutto, sporco e cattivo, nelle scarpe di una mestizia crudele che galleggia nella melma della casaccia che emana dallo schermo la puzza della miseria, venditore di caffè caldi nei vagoni di un treno, clandestino della dignità che, a tratti, segna punti contro un destino che riesce, poi, a rovesciargli addosso l’ineluttabile segno di una nascita sfortunata.
Per i bambini, e non solo quelli della generazione Topolino, che collezionava le medagliette e sognava i proiettili Bum, il registratore Geloso, le pinne rondini di Cressi-Sub, ma anche per la generazione X, oggi digitale per derivazione, Manfredi è Geppetto. Unico, solo. Nessun altro come lui. Un familiare che bussa ed entra col capolino, ogni volta che lo sceneggiato di Comencini trova spazio nei palinsesti sempre pieni.
Le date tonde camminano insieme: un secolo fa nasceva Manfredi e 50 anni fa esatti nasceva Geppetto, il primo aprile del 1971 alle stalle di Farnese a un tiro di schioppo dal confine toscano, ci fu il primo ciak de “Le avventure di Pinocchio”.
Sembra di vederli. Comencini dà il motore e l’azione. Fa un freddo della malora in quella specie di stalla di tufo, casa del falegname di lusso del paese, detto mastro Ciliegia. «Stamani m’è piovuta nel cervello un’idea... Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno...».
Prima battuta di un sogno che a chiamarlo così quasi si banalizza, ma la bellezza è frammenti di cose semplicissime, e come la spieghi l'incanto di una favola a un bambino, anche duro d’orecchi, se non gli fai alzare gli occhi a immaginare quello che potrebbe essere in quella dimensione che si vede e non si tocca? Allora il sogno sì che esce dalla scatolina del lessico e diventa gigantesca fantasia.
Nell’intimità del suo anfratto ha preso vita il gusto dell’arte scenica purissima e distillata: la preparazione della schiacciata col rosmarino, l’ultimo sorso di vino dell'avaro Ciliegia, l’amore profondo per un figlio che non c’è ancora, riflesso di un desiderio profondo e sofferto, mentre la musica di Fiorenzo Carpi accarezza come una piuma un ricordo che inumidisce gli occhi.
Ecco, Manfredi, è stato non solo un viso sullo schermo ma un mattatore, il mille volti di uno, è stato il nostro Paese dei Balocchi, quello senza alba, infinito.