Oggi l’attore di film straordinari come “La leggenda del re Pescatore” e “Good Morning Vietnam” avrebbe compiuto 70 anni. Un giro di jazz per ricordare chi era e chi sarà ancora
Tutti gli articoli di Good Morning Vietnam
PHOTO
Gli anni girano e ispessiscono la testa, isolano il di sotto, quello che pulsa e manda calore. Quand’era morbida la mente, era un’altra sonata. Le storie ci planavano leggerissime, finivano a inumidire le radici, le gambe incerte e ci tiravano su che era una meraviglia. Ora parlano gli anni in cumulo, libri senza figure, messi uno sull'altro, ci raccontano cose in serie nell’orecchio e sono convincenti.
Sì, la poesia, sì, la rosa che sboccia e attento a coglierla quando il momento è quello buono, né prima, né dopo. La voce dell’esperienza rimpicciolisce tutto quello che sembrava prezioso e gigante la prima volta che l’hai visto. La ragione macina il sentimento, ha proprio un rumore tipico, uno sfrollare, un frantumare sotto i piedi cresciuti, come vetri rotti sminuzzati dal passo pesante.
«Ma no, troppo consumata quella battuta e poi il film, va bene, ci ha fatto piangere, ma ora, ora se lo rivedo… Sì, la bravura, le mani in tasca, ma i libri, i libri non si strappano… Sì, la creatività, il mondo, il teatro, l’arte, i piedi nudi sull’erba, il sole che se ne sbatte e se ne va quando gli pare. Ed è forse questa la poesia? Ma poi, importa? Prendi l’auto, spegni la luce, metti la sveglia, che facciamo per cena?».
Cosa ci hai insegnato, professor Keating? In quale angolo di mestiere ti nascondevi, mister Robin Williams, quando il dubbio su quello che si può vedere solo cambiando altezza, ce l’hai instillato dentro?
Allora sì, sì davvero. Sì tutto, senti com'è cambiata la voce in testa? Sì la poesia, la rosa, carpe diem. Prendi il giorno, mettilo in uno zaino e cammina a piedi scalzi, strappa quel che ti pare e sali su qualsiasi tavolo anche se traballa, e fai, opera, e se non ce la fai almeno saluta prima.
Non sarà la vita adulta a segnare il nostro passo, non sarà l’esperienza a diluire la seta dell’innocenza. Torniamo indietro, torniamo a quel momento, quando facevamo il tifo per noi.
Ehy tu, proprio tu, in fondo, strappala quella pagina se non ti dice niente, se non ti parla, se ti mette a disagio, tirala via senza guardarla, ché nessuno ci può dire quando la coperta è troppo corta, quando gridare a questa platea che è ora di andare perché lo spettacolo è finito, quando chiedere scusa, come ombre su un palco, se per caso vi abbiamo annoiato. Fallo se lo vuoi, se lo senti, e se non lo sai allora siediti, incrocia le gambe e prendi cielo nei polmoni, nessuno ti giudicherà un impostore se non sarai all’altezza. È forse questo che ci ha insegnato Keating con Whitman sotto il braccio?
Sapete sciogliere cinquecentoventinque parole senza mai arrotolare la lingua? Sapete come si fa? Non si fa, perché si fa solo come lo faceva lui, lui era un giro di jazz, e lui non c’è più.
Robin Williams, il re Pescatore, nato il 21 luglio di 70 anni fa. Ma non compie 70 anni Robin, non li compie più da sette anni. Sette anni lunghi, senza la sua faccia presente a dirci come stiamo invecchiando. Lui l’alieno. Lui disperatissimo, matto, come uno studio cocciuto da farci la gobba. Robin, dillo: “Gooood Morning Vietnam!” e lanciaci un pezzo del grande Satchmo sul piatto che il mondo è bello anche quando fa un po’ schifo ai bordi. Parlaci di come lo vedi tu, facci ridere tra le lacrime, riempici il piatto di cose buone da mangiare e poi prendine un po’ tu, con le dita va anche bene.
Si sparisce dalla vita. Ce la soffiano lontano, diventa notizia, cronaca in un lampo, e poi analisi del cordoglio e un codino da masticare per gli ammiratori e i curiosi più macellai. Invece Robin non se ne vuole proprio andare, testardo d’un sangue misto! Alieno ma neanche troppo bizzarro. Non un cattivo maestro, Robin, con gli occhi troppo sorridenti per comandare una setta anche se di poeti estinti.
Sarà forse per la bizzarra miscellanea del suo sangue, in cui ballavano geni gallesi, irlandesi, francesi, inglesi, o forse per la fisionomia da fumetto con quella mascella sporgente, che lo rese perfetto nella parte di “Popeye”, o per gli occhi stretti e azzurri a mezzaluna, Robin Williams manca e la sua morte è sempre un lutto fresco.
La prima imitazione della sua vita fu quella di sua nonna, che non vedeva mai ma sentiva solo per telefono, la preferita quella dello scienziato Stephen Hawking anche se poi sognava di interpretare Einstein.
Nato nella pancia dell’America industriale, Chicago, Williams cresce come un bambino solitario e riservato. Non ha molti amici e gioca spesso da solo con i soldatini che sua madre gli compra a pacchi. La madre, una ex modella di origini francesi, lo spinge a fare teatro e a iscriversi nella prestigiosa Juilliard School. Diventa amico di Kevin Kline e Christopher Reeve. Quando Reeve ebbe l’incidente a cavallo che non lo fece mai più alzare dal letto, Robin entrò nella stanza d’ospedale vestito da medico e sfoggiando un forte accento tedesco. Chiese a Christopher di voltarsi per sottoporsi a un esame di proctologia. Reeve non capì, fu lì per chiedere e poi lo riconobbe e rise. La prima risata dal giorno dell’incidente.
Fu la serie “Mork e Mindy” a regalarci Williams l'attore, era uno spin-off di Happy Days, con un alieno per protagonista. «Che razza di idea!» commentò l’attore quando glielo proposero. Il figlio del regista Garry Marshall era un grande fan della saga di Guerre Stellari e suggerì al padre di creare il personaggio di Mork. La cosa funzionò e Robin Williams iniziò l’ascesa verso la fama e la sua discesa agli inferi.
La sera del 1982, in un hotel su Sunset Boulevard, c’era anche lui accanto a Robert De Niro e Jack Nicholson quando Cathy Smith iniettò la dose fatale nel braccio di John Belushi. Ma la morte dell’amico non riuscì ad allontanarlo dal bordo a cui si era troppo avvicinato.
«La cocaina è lo strumento che Dio ti manda per farti capire che stai guadagnando troppo», ripeteva spesso quando riemergeva oltre la linea di galleggiamento del suo mal di vivere. Il grande successo arriva sull’onda di film straordinari: “L’attimo fuggente” («il film a cui sono più affezionato, parla della passione, della creatività, di tutte quelle cose alle quali la gente aspira ma che raramente riesce a realizzare»), “Good morning Vietnam”, “La leggenda del re pescatore”, “Cadillac man”, “Risvegli”.
Una volata che lo porta dritto, dagli anni 80 ai 90, sulla cresta di un successo devastante che gli fa collezionare due mogli e un mucchio di sedute di riabilitazione. Williams con “Will hunting” di Gus Van Sant, nel ’98 si porta a casa l’Oscar, poco più di dieci anni più tardi guarda in faccia la morte ancora una volta, questa volta per un problema cardiaco. Dice basta a tutto, droga, alcol, si sposa per la terza volta, con la grafica Susan Schneider, e mette la testa a posto. Promette che ce la farà perché la vita è più forte di tutto. Ma al cinema non funziona più come prima, i copioni che interpreta non sono all’altezza dei film che l’hanno reso celebre e Williams sente ancora sul proprio fisico i contraccolpi della delicata operazione al cuore e le avvisaglie di un male maggiore che ce lo porterà via.
E poi arriva il nero. Come in ogni film. Che sia improvviso o in dissolvenza, decide l'autore. Lui ha preferito così, il lampo, prima la scena e poi la fine, senza sfumature. Ha deciso così, e noi per dispetto continuiamo a mandare indietro, riavvolgere, e rivederlo dall’inizio, e così sempre.