Come la guerra distrugga tutto ciò che incontra è un dato di fatto inconfutabile, ma di come la guerra distrugge le società, la psiche e i rapporti umani è un argomento che dovrebbe fare riflettere oltremodo.

Avere la fortuna di conoscere persone che possono raccontarti l’una e l’altra parte è un dono, ma riuscire ad entrare in contatto con queste per potere avere un punto di vista più obiettivo è ancora meglio. Mi sembra giusto poter dare voce anche a chi sta dall’altra parte, cercando di capire il sentire dal punto di vista umano.

Come a tutti è stato insegnato sin da bambini, da odio nasce odio e da amore nasce amore. Questo accanimento non solo mediatico, ma anche umano sta creando delle rotture che potrebbero dimostrarsi irreversibili dal punto di vista antropologico.

Durante la mia permanenza in Ucraina ho avuto modo di confrontarmi con chi della sicurezza ha fatto uno stile di vita, così mi viene edotto che esiste una realtà parallela a quella degli ucraini che fuggono ed è quella dei russi che fuggono dalla “Grande Orsa”.

Registi, scrittori, studiosi, analisti, giornalisti e molti altri semplici civili hanno deciso di abbandonare la propria casa con la speranza di poterci tornare presto. Fuggono, molti fuggono nel silenzio, altri vengono esfiltrati e molti ancora cercano asilo nelle regioni “più gettonate” da quando le guerre ibride hanno iniziato a popolare una certa zona del globo.

Ma per ogni descrizione c’è tempo e anche per questo arriverà il suo. Tra questi russi ci sono quelli che non hanno più un legame con la famiglia perché si sono ritrovati a non pensarla come loro. Difatti in questa guerra, perché ancora devo capire chi ha il coraggio di chiamarla “operazione speciale”, molti russi hanno interrotto i rapporti con i loro cari, a causa di un approccio completamente differente e distante dalle prese di posizione di Putin.

Chi parla non vuole essere riconosciuto e chiede o l’anonimato o uno pseudonimo, ma alla fine il pensiero di chi si apre è: «Tanto chi conosce la storia non ci metterà molto a capire chi sono. L’unica speranza è che parlando con una giornalista straniera la storia possa montare il più tardi possibile».

Così parte la call, che in questo periodo va tanto di moda e che serve ad avvicinare chi è lontano, a raggiungere chi non può farsi raggiungere e a rompere quel muro di omertà che di persona, con una macchina fotografica sarebbe più difficile da superare.

Ana, nome di fantasia, ha 24 anni ed ha deciso di scappare assieme a dei conoscenti. «Sono stata cresciuta da mio padre e mia nonna. Papà mi ha sempre amata, protetta, ascoltata e ha sempre riso con me.  La nonna è una figlia della guerra, durante la seconda guerra mondiale si svolsero battaglie con carri armati quasi vicino a casa sua, lei conosce già questi orrori. I nostri parenti da parte di mia nonna vivono in Ucraina. Papà è nato e vissuto da bambino nel Donetsk, poi da lì mi portava molte volte a visitare l'Estremo Oriente. Da dove stavamo noi sono circa dieci giorni di macchina. Ora vive vicino al confine con l'Ucraina».

«Dal 2014 abbiamo iniziato a guardare il mondo in modo diverso. Entrambi abbiamo denunciato quello che stava succedendo, ma lui ha iniziato a lasciarsi trasportare dalla propaganda in TV, sempre di più, convincendosi che “l'America è cattiva e noi siamo i buoni”. Ma è stato lui che mi ha insegnato ad ascoltare tutte le opinioni delle persone e a non giudicarle».

«Cosa è cambiato? – continua Ana - Il momento critico nella mia relazione con mio padre è stato il giorno in cui è iniziata la guerra. Poco tempo prima aveva già detto che il governo russo stava facendo un ottimo lavoro e continuava a ripeterlo con le stesse parole della TV che non era mai spenta. Parlava di “8 anni di pazienza”, e che prima o poi il giorno X sarebbe arrivato. Gli ho detto andiamo via e lui non ha risposto. Gli ho detto io vado e il silenzio tagliava l’aria. Così attraverso mille difficoltà, mi sono mossa con il cuore rotto e con chi aveva già organizzato “l’esfiltrazione” e dopo una decina di giorni sono arrivata in una terra “amica”».

«Il 24 mattina accendo la televisione e quando ho visto la notizia dell’inizio della guerra, l'ho chiamato subito. Ero molto preoccupata per lui. Ha risposto che c'erano molti aerei che volavano, si sentivano suoni come se si fossero sentite esplosioni da qualche parte, ma per lui andava bene. Mi disse, speriamo che tutto finisca presto con questo fascismo».

Tra una pausa dettata da un singhiozzo e uno sguardo perso nel vuoto Ana giocava con una ciocca di capelli. Io ho atteso che lei parlasse ed eccola di nuovo con me. «La sera l'ho chiamato di nuovo, non ha risposto, e così ho fatto per più volte. I miei pensieri, ovviamente, erano tra i peggiori. Non riuscivo a trovare pace e finalmente parla: Papà! Papà! Come stai? Perché non hai risposto per così tanto tempo? Pensavo già che fosse successo qualcosa!

- Non è successo niente. Va tutto bene.

Ho cercato di parlare senza aggressività, con calma in modo che non diventasse più aggressivo, ma gli ho comunque detto.

- Papà questo è sbagliato, non c'è giustificazione per la guerra.

Poi ho sentito un sacco di cose brutte su di me, come se non fosse mio padre, ma un estraneo, parlava della lingua russa e del Donbass, sembrava una copia carbone dai canali televisivi federali. Ho cominciato a dire che in Ucraina vivono le stesse persone di prima, ma si è infuriato ancora di più con me e mi ha detto una cosa che non dimenticherò mai in vita mia: “Tu e tutti quelli che sono d'accordo con te dovreste essere fucilati. Non ti ho cresciuta così”. Poi ha riattaccato».

«Ma è esattamente tutto il contrario, perché il mio modo di pensare è tutto merito suo. Ma quello che gli è successo è incomprensibile. Dopo questa conversazione, ha iniziato a inviarmi link filo-governativi. Video di propaganda, ma io non voglio leggere e vedere nulla. Mi sento tradita. Ad oggi non voglio comunicare con lui. Dovrà chiamare e chiedermi scusa. Ho deciso che senza le sue scuse, non ci saranno più comunicazioni. È stato come se mio padre mi avesse colpito in testa con un’ascia. Forse comunicheremo ancora, ma sicuramente non per i prossimi mesi. Mi fa male rendermi conto di questo, ma è una realtà. Sappi che io sono fiera di essere russa, ma posso urlare di essere contro la guerra e posso farlo solo da qui».

Così dopo la traduzione e qualche momento di silenzio accompagnato da qualche sorriso amaro e piccole smorfie del viso, Ana mi saluta e mi dice grazie per avermi ascoltata.

Ma sono io che ringrazio lei per essersi aperta. Credo che anche il padre soffra oltremodo anche se con un altro punto di vista.