VIDEO | Storie di donne che raccontano la guerra in Ucraina: tra queste anche la tragedia di Vira, giornalista uccisa il 28 aprile e la drammatica testimonianza di Ana
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Kivy-Kiev. Oggi ho deciso di dare voce a tre Donne con la “D” maiuscola, che meritano di essere narrate per la loro forza e indomita passione per la vita. Una di queste l’ho conosciuta personalmente e la sua testimonianza mi ha fatto vibrare le corde dell’anima, così come quelle che seguiranno. Tre storie differenti, ognuna con una sofferenza alle spalle e non tutte hanno un lieto fine, ma meritano di essere raccontate.
La storia di Vira
Lei si chiamava Vira Girich, una giornalista e produttrice di Radio Liberty, che è stata uccisa il 28 aprile, quando un missile russo ha colpito un edificio residenziale nel centro di Kiev. A detta di chi la conosceva e dei colleghi, Vira amava il suo lavoro e secondo un ufficiale ucraino, dall’inizio della guerra non si era mai risparmiata nella ricerca della verità, rimanendo in costante contatto con il fronte.
La famiglia di Vira era riuscita a sfuggire alle cruente battaglie. Ma al destino non si sfugge e il 28 aprile scorso, c’era un mietitore ad attendere una donna e una professionista come Vira. Il suo ultimo lascito ai posteri è un’intervista fatta ad un’altra donna, altrettanto forte e degna di ricevere attenzione, perché questa donna ultra ottantenne ha un lascito ancora più grande da offrire, la sua storia di vittoria contro “la dama nera” dal periodo dell’Olocausto.
La storia dell'87enne sopravvissuta all'Olocausto Elvira Bortz, che è stata costretta a fuggire da Mariupol bloccato durante la seconda guerra mondiale, è l'ultimo articolo della giornalista di Radio Liberty Vera Girich, morta a seguito di un attacco missilistico russo su Kiev.
In uno degli ultimi post era felice del fatto che i genitori fossero scampati ai bombardamenti. Nel post del 10 aprile alle 8:30 del mattino diceva: «Così finalmente ora mia madre ha la sua cucina. Un mese in isolamento senza comunicazione, luce, acqua e gas. Neiloro ottanta anni i miei genitori sono sopravvissuti alla prova! Il ripristino della rete fallisce rapidamente, ma la cosa più importante è la comunicazione…».
Così parlava in uno dei suoi ultimi post, prima che quel maledetto 28 aprile un missile colpisse la sua casa a Kivy/Kiev. Mi sorge una riflessione, tra le centinaia di account Facebook, Instagram, Twitter, ci sono migliaia di ricordi di persone che nel giro di poco tempo non esistono più. Vite spezzate da una guerra ingiusta come tutte le guerre che “popolano” questa terra.
Elvira, sopravvissuta all'Olocausto
Così nell’ascolto dell’intervista della signora Elvira leggo commozione mentre Nadiya traduce il testo.
Elvira ha 87 anni e suo marito Nikolai Petrov 94. Entrambi di etnia russa, hanno vissuto sotto continui bombardamenti per più di un mese. Grazie ai volontari, la coppia di anziani ha potuto lasciare Mariupol alla volta di Kiev, dove adesso possono godere una “instabile serenità”. Quello che sta accadendo ora a Mariupol la coppia lo definisce più tragico e terribile degli eventi della seconda guerra mondiale.
«Mi chiamo Borts Elvira Mikhailovna, non ho figli né nipoti. Perché quando il mio corpo femminile ha avuto la pubertà, vivevo durante il periodo dell'Olocausto e il mio sviluppo è come se si fosse fermato. Ecco perché quella guerra non mi ha lasciato l'opportunità di avere figli. Quindi porto con me solo il mio cognome Bortz. Ricordo 38 persone fucilate sotto una colonna, tutti di 5 nazionalità diverse. Furono sepolte nelle basi agricole di Mariupol, La loro colpa era che avevano un’origine comune nonostante la differenza della nazionalità.
Per tutta la vita ho cercato di dimenticare, ma non potevo, dovevo ricordare. Sono inorridita dal blocco di Mariupol. Per molto tempo ho lavorato in Kazakistan (regione orientale del Kazakistan e distretto di Baikonur) e da lì sono andata in Siberia (territorio di Krasnoyarsk).
Poi, a causa di circostanze familiari e con dei genitori anziani sono dovutatornare a Mariupol nel 1965. Non sono diventata un grande geologa, ma una geologa ingegneristica, e tutte queste case nella città di Mariupol sono passate per le mie mani. E ora sono tutte a pezzi.
Quando ho sentito che le truppe russe avrebbero potuto invadere, o meglio che c’era già un ordine, dissero ai civili che non dovevamo preoccuparci (…), ma il blocco era iniziato, ecco tutto. La città era chiusa come Leningrado, solo che era molto peggio.
Hanno sparato per 48 ore di fila. Sai che significa? Due giorni. E quando le bombe volano, hanno il loro cigolio (un loro rumore). E quando cadono ed esplodono la terra trema». - E mentre i suoi occhi e le sue mani basterebbero a raccontare tutto, la voce rende l’ascolto ancora più difficile da accettare (…)(2:51)
«Sai, Primorsky Boulevard eradavvero memorabile a Mariupol. Una strada bella, dritta e luminosa, piena di panchine per i vacanzieri. E su una di queste panchine, un uomo si è seduto, la sua faccia è stata spazzata via da una granata ed è rimasto lì seduto per diversi giorni».
«Il cimitero centrale è stato aperto. Pensa, era chiuso da quasi 50 anni. E io sono così: non c’è un funerale, non c’è una sepoltura. Sepoltura. Perché? Non possiamo lasciarla così, la primavera si avvicina già».
Penso che quella “nonna” avrebbe potuto essere la nonna di ognuno di noi, come le migliaia di nonni, bambini e gente la cui vita e stata spezzata o addirittura eliminata.
Continua: «Alcune case sono state distrutte da proiettili, altre bruciate e altre sono esplose. E così siamo passati tra una casa che esplodeva accanto ad un’altra intera e siamo andati via. Ma noi viviamo lì, cosa dobbiamo fare?».
Questi ragazzi, giovani militari hanno lottato per tutto questo tempo cercando di fermare il nemico e ora sono nell’Azovstal. L'ultimo focolare. Dio li salvi tutti.
Lei stesso, signor Putin, ha affermato che ogni paese ha le sue leggi e le sue usanze. E tu cosa hai fatto? E cosa stai facendo adesso? C'è così tanto sangue sulle tue mani. Nessun Signore permetterà che questo sia perdonato. Siamo tutti testimoni di questo omicidio di massa di cittadini dello stato vicino.
E non abbiamo il diritto di tacere, altrimenti siamo complici di questo omicidio. Tutti! Capisci? Rivolgendosi al giornalista. Beh, non lo so, non so cos'altro aggiungere. Signor Putin, ci pensi. Fermi questa carneficina!».
La storia di Ana
E poi c’è lei la signora Ana, incontrata in uno dei tanti punti di accoglienza vicino Lviv, in una chiesa intitolata a Giovanni Paolo secondo e dalla quale all’epoca, più di 4mila persone avevano già trovato rifugio.
Mentre gli altri girano per la struttura il prete mi dice: «Vuoi parlare con una nonnina?». Ed eccola lì, con le spalle un po’ ricurve su una pietanza da consumare. La porta si chiude alle mie spalle, tutto intorno è disordine. Materassi a terra, vestiti in un carrello della spesa, indumenti ovunque, cibo e varie vettovaglie sopra il tavolo dove la nonnina mangia. A dire dagli indumenti sui materassi, in quella stanza ci sono almeno altre 5 persone, tutte donne con bambini.
Si gira, mi guarda e accenna qualcosa in russo. Cerco di farle capire che devo prendere il traduttore e lei sorride. Tutto è pronto, parto con le domande e lei è ben predisposta anche ad un video. Nel suo maglione rosso e bianco, con quei capelli canuti e il viso segnato dal tempo e dalla vita mi dice: «Ho 84 anni. Vivo a Kharkiv vicino al confine con la Russia. Avevo tutto lì e sono dovuta venire qui. Non sono qui per me stessa, sarei rimasta lì, ma (parla della nipote) lei ha un bambino in grembo. Sono qui per i miei nipoti. Lei si è appena sposata.
Penso solo a come tornare a Kharkiv il prima possibile. Non voglio davvero andare a casa sua, anche se sono molto amorevoli. Sono preoccupati per me. Era sera e i bombardamenti si erano intensificati. Poi un boato forte, la luce è andata via e alcune case hanno iniziato a bruciare. Dove andare? Quella è casa mia. Sono rimasta e dopo un po’ ancora bombe e un lato della mia casa è crollato. Io mi sono salvata miracolosamente e poi le corse tra le persone che conoscevo, i volontari e adesso mi trovo qui.
Vorrei di nuovo la mia cucina, voglio cucinare, voglio tornare a casa, anche se è malridotta, ma è casa mia. Ci posso stare. Ridatemi la mia cucina, la mia casa».
E mentre sul suo volto “da bambina” appaiono le prime lacrime non si ferma, mentre stropiccia con quelle mani macchiate dal tempo la sua gonna di lana: «Come è possibile? - continua tra le lacrime – non possiamo seppellire i nostri figli. Siamo tutte madri, anche dall’altra parte siamo tutte madri e mandiamo i nostri figli in guerra. Come è possibile».
Così mi sorride asciugandosi le lacrime con il lembo di uno strofinaccio e mi abbraccia chiudendo le palpebre. Ogni cosa qui cambia il punto di vista. La guerra che insanabile ferita per l’umanità e che atrocità dietro ad ogni sguardo. La guerra la fanno “i potenti” dietro le loro scrivanie e al sicuro, ma la subiscono i popoli in prima linea su ogni fronte. Dovremmo vergognarci di abusare della parola “umano”. Smettiamola di batterci il petto davanti ad un altare o ad un crocefisso, se poi i tempi ci portano ad essere peggiori di come eravamo.