Mentre Matteo Salvini veniva incoronato imperatore del centrodestra a Pontida è diventata evidente anche ai più distratti l’assenza totale di opposizione in Italia. Quella stessa sinistra che aveva nelle sue radici l’ironia del primo Moretti che in Ecce Bombo si chiedeva “mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?”, oggi una domanda simile non potrebbe neppure porsela, perché c’è o non c’è è la stessa cosa.

 


Dal palco del pratone leghista, il sottosegretario Giancarlo Giorgietti, braccio destro di Salvini, lo ha ammesso candidamente: «In Italia - ha detto - governiamo senza opposizione, perché il popolo è con noi». Come dire, facciamo quello che vogliamo. Ecco - veniva da pensare - ora finalmente qualcuno si alzerà e gli dirà che se lo può scordare, che non basta vincere le elezioni per ipotecare la democrazia, gli dirà che l’opposizione è la prima garanzia di libertà per quello stesso popolo che li ha votati. Invece niente, nessuna reazione.

 

Dal canto suo, Salvini ha promesso 30 anni di governo a trazione leghista, e niente anche stavolta. Da sinistra non è arrivata una parola che non fosse la solita comparsata da trasmissione politica del mattino. Salvini ha incalzato, annunciando la costituzione della Lega delle Leghe per coagulare il fronte populista a livello europeo e puntare alla conquista di Strasburgo nelle elezioni del 2019. E ancora niente, dalle minoranze di sinistra neppure un battito.

 

Ma che fine hanno fatto, vecchi e nuovi? Dove sono i D’Alema e i Bersani, i Fassino e gli Amato, gli Orfini e i Guerini? Che fine hanno fatto le nuove leve che affollavano la Leopolda, come Serracchiani, Boschi, Lotti, Bonafè, con tutte le loro correnti dem, areadem, futuredem, libereldem, sinistradem, retedem. E dove sono i duri e puri di Liberi e Uguali, i vari Grasso, Boldrini, Civati? Marcano tutti visita, come se la mazzata delle Politiche possa giustificare un’assenza invece imperdonabile, perché tradisce non solo i loro elettori, ma la democrazia stessa.

 

Ma su tutte le assenze, è quella di Matteo Renzi la più imbarazzante. Se la retorica dei popcorn - cioè sedersi comodamente in poltrona per godersi l’impatto presumibilmente catastrofico tra la nuova maggioranza e la realtà del Paese - poteva avere un senso all’indomani del 4 marzo, oggi invece appare per quello che è: una fuga davvero poco dignitosa dalle responsabilità che un leader, per quanto sconfitto, dovrebbe assumersi. Renzi, invece, sembra interessato soltanto a rimarcare che se il Partito democratico è affondato non è certo per colpa sua ma di chi ha remato contro, come se la cosa oggi possa interessare a qualcuno. «Scriverò sul Pd con calma nei prossimi giorni, in vista dell'Assemblea nazionale del 7 luglio», fa sapere l’ex presidente del Consiglio. Con calma.

 

Per ora nella sua giornata tipo ci sono ben altre incombenze. Secondo quanto rivelato dal quotidiano La Verità, infatti, l’ex enfant prodige di Rignano sull'Arno avrebbe versato pochi giorni fa la caparra di 400mila euro su un totale di un milione e 300mila euro per l’acquisto di una villa a Firenze. Dal notaio per il preliminare, Renzi avrebbe staccato 4 assegni circolari da 100mila euro l’uno. Beato lui e la storia finirebbe qui, se non fosse che nel gennaio scorso, ospite della trasmissione Matrix prima dello tsunami elettorale di marzo, mostrò il suo conto corrente da italiano medio, ostentando appena 15.859 euro.

 

«C’è l’idea che chi fa politica sia un po’ un traffichino - disse in quell’occasione - allora io ho portato il mio conto corrente. Quando sono diventato presidente del Consiglio, al 30 giugno 2014 avevo 21.895 euro e oggi ho un po’ meno». A quanto pare doveva perdere le elezioni per rimpinguarlo a dovere.


Enrico De Girolamo