Quasi tutti i partiti hanno imbottito le proprie liste di candidati “stranieri”. Che potrebbero prendere i voti per poi disinteressarsi delle sorti di questa regione (ASCOLTA L'AUDIO)
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«Tu vuò fà u calabrese». Renato Carosone, con la sua canzone più celebre, ironizzava sugli italiani del Dopoguerra che imitavano l’american way of life. Una irresistibile e popolarissima satira in musica che può essere riadattata per raccontare le grottesche campagne elettorali di quella folta schiera di candidati che, con la Calabria, c’entra poco o nulla.
È la storia non troppo buffa di tutti quei politici che, per il voto del 25 settembre, sono stati paracadutati dalle segreterie romane tra il Pollino e lo Stretto, malgrado non avessero e non abbiano niente a che fare con questa regione o, nella migliore delle ipotesi, potendo vantare solo legami puramente anagrafici.
Gente che, in molti casi, nella propria carriera politica o professionale non si è mai interessata di Calabria, ma che ora, in virtù del proprio (ottimo) piazzamento in lista, deve recitare – ma solo per un breve lasso di tempo – la parte più conveniente agli occhi degli elettori.
Quasi tutti i partiti hanno imbottito le proprie liste di “stranieri”, il più delle volte blindati in modo arbitrario come capilista nel collegio plurinominale calabrese. Collocazione che, il più delle volte, significa elezione sicura in Parlamento.
Così la coda di questa campagna elettorale continua a essere colorata dalle pose (improbabili) di candidati che, invece di bere «whisky e soda» e di ballare il «rock and roll», provano a spacciarsi per calabresi doc e si atteggiano a riconosciuti amanti della Calabria e perfino a storici difensori di una delle regioni più povere d’Europa.
L’effetto di queste pantomime interessate è a dir poco straniante. Andrebbe anche bene se i loro effetti provocassero soltanto reazioni emotive, la riprovazione pubblica di elettori traditi, una volta di più, da un sistema partitocratico che, grazie ai meccanismi perversi del Rosatellum, la legge elettorale in vigore dal 2017, ha spesso considerato la Calabria come un mero bacino di voti a disposizione delle segreterie nazionali.
Le scelte romane hanno invece conseguenze politiche, che per la Calabria rischiano di essere drammatiche. Questa regione eleggerà 19 tra deputati e senatori, a fronte dei 30 previsti prima del taglio dei parlamentari.
Tra i 19 fortunati, di certo saranno parecchi i “non calabresi”, la cui unica regola da seguire potrebbe essere, al massimo, quella della lealtà verso il capo partito che li ha beneficati con un seggio sicuro. Nessun obbligo, invece, nei confronti degli elettori di riferimento, privati dal Rosatellum perfino della possibilità di esprimere le preferenze per candidati che, di fatto, si sentiranno liberi da vincoli e legami con i territori che li hanno catapultati in Parlamento.
Ad alcuni neo parlamentari “calabresi” potrebbe insomma venire molto facile prendere i voti e scappare prontamente a Roma, e chi s’è visto s’è visto. È uno scenario più che probabile, con il quale bisogna fare i conti.
Il deficit di rappresentanza reale in Parlamento potrebbe ridurre la già scarsa capacità di fare pressione sui decisori romani ed emarginare ancora di più la Calabria. Difficile immaginare i paracadutati romani mentre lottano contro il Governo per la fine del commissariamento della sanità regionale, o per il completamento della 106, o per il potenziamento del Porto di Gioia Tauro; più che arduo figurarsi le loro battaglie a favore dei precari storici, della forestazione, della viabilità, o anche contro l’autonomia differenziata voluta dalle regioni del Nord.
«Nun ce sta niente 'a fa'»: la Calabria è stata ancora una volta danneggiata non solo dal Rosatellum, ma soprattutto dal modo in cui i partiti lo hanno sfruttato per regolare i propri rapporti interni.