Nessuna dem in Parlamento. A differenza delle altre forze politiche. E ora si attende l’ennesimo congresso per una svolta sulla rappresentanza di genere
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Per un partito che ha la parità di genere tra le sue colonne fondative è davvero un problema non secondario. E mentre la leader del centrodestra, Giorgia Meloni, si appresta a diventare la prima presidente del Consiglio donna della storia, il Pd si conferma come un partito a trazione maschile, anche e soprattutto in Calabria.
I numeri
Le ultime Politiche lo hanno dimostrato con i numeri, che non mentono: le donne elette in Parlamento tra le file del Pd sono un terzo del totale. Il partito calabrese ha avuto la sua parte in questo disequilibrio di genere, visto che a Roma ha spedito solo due uomini: il segretario regionale Nicola Irto (Senato) e uno dei maggiorenti di Articolo uno al Sud, Nico Stumpo (Camera).
Entrambi sono stati piazzati come capilista dalla segreteria Letta, secondo una interpretazione piuttosto singolare dell’alternanza di genere.
Le donne? Tutte al secondo posto: la pasionaria e deputata uscente Enza Bruno Bossio, che ha sfiorato l’elezione per poi essere beffata dai riconteggi, ha trovato posto dietro Stumpo; numero due, dopo Irto, anche Carolina Girasole, l’ex sindaca di Isola Capo Rizzuto diventata un simbolo dopo essere stata assolta in via definitiva da pesanti accuse di mafia.
Il Rosatellum e la sua applicazione
I maschi dem sono riusciti a prevalere malgrado il Rosatellum, la legge elettorale, preveda una rappresentanza paritaria nelle liste. Principio rispettato anche in Calabria, ma solo in teoria, perché i posti utili sono stati appannaggio esclusivo del sesso che, in questa regione, è sempre più forte, al di là delle dichiarazioni d’intenti.
Così le donne, nel rispetto formale delle norme e dei principi fondativi, vengono sì candidate, ma nelle sfide più proibitive, spesso disperate. Stavolta è toccato a Giusy Iemma (presidente dell’assemblea regionale) e Francesca Dorato, spazzate vie dal centrodestra nei due collegi uninominali – giudicati non contendibili da tutti gli addetti ai lavori – di Catanzaro e Senato Nord.
Problema generale
Il problema è generale. Uno studio speciale dell’Ansa sulla rappresentanza femminile in Italia ha certificato, tra gli altri aspetti, il calo della presenza di donne in Parlamento: dal 35% del 2018 si è passati al 31%, prima flessione da vent’anni a questa parte.
Un vulnus per tutte le forze politiche, ma soprattutto per il Pd, alfiere di un’uguaglianza tra i generi che non trova corrispondenza nelle istituzioni.
Il caso ha scatenato un dibattito nazionale che vede impegnate le donne più rappresentative del partito. Come l’ormai ex parlamentare Alessia Morani, che ha squarciato il velo d’ipocrisia con un tweet che ha imbarazzato Letta: «Gli impegni della segreteria nazionale sulla parità erano altri. Bisognerà che qualcuno ci spieghi cosa è successo».
Le impari opportunità saranno, con ogni probabilità, al centro del prossimo congresso, in cui a giocare un ruolo da protagonista potrebbe essere la vicepresidente dell’Emilia, Elly Schlein, tra i favoriti per la guida del partito. Sarebbe una rivoluzione. Intanto, però, a fare rumore sono i mugugni interni.
Come quelli, pubblicati da Repubblica, della capogruppo uscente al Senato Simona Malpezzi («non può esistere alcun percorso congressuale che non parta da questo dato delle elette e dal tema della democrazia paritaria») e dell’ex presidente della Camera Laura Boldrini («la vocazione femminista sia in cima alle idee per un radicale cambiamento del partito»). Invece in Calabria, a parte poche voci isolate, il dibattito ristagna e la parità di genere viene ridotta a questione marginale.
Squilibri storici
Eppure qui lo squilibrio è più evidente che altrove. Il Pd calabrese, con Forza Italia, è stato l’unico partito, tra quelli che hanno ottenuto seggi, a non eleggere donne in Parlamento. Ne avranno invece due a testa Fratelli d’Italia (Ferro e Roccella) e Lega (Loizzo e Minasi) e tre il M5S (Baldino, Orrico e Scutellà).
Il partito di Berlusconi, tuttavia, nel tempo è riuscito a garantire le quote rose molto più del Pd. Nella scorsa legislatura, Fi contava su tre donne (Caligiuri, Tripodi e Vono), contro l’unica del Pd (Bruno Bossio).
Gli azzurri, peraltro, sono tuttora rappresentati a Palazzo Campanella da tre consigliere regionali (Fedele, Gentile e Straface) su un totale di otto eletti. Il Pd, al contrario, ha occupato i cinque scranni a disposizione con cinque uomini, senza eccezioni.
L’introduzione della norma sulla doppia preferenza di genere, in vigore a partire dalle Regionali 2021, non ha insomma cambiato nulla rispetto alla legislatura precedente, interrotta anzitempo dalla morte della governatrice – e coordinatrice di Fi Calabria – Jole Santelli. Anche in quel caso, il Pd non era rappresentato da alcuna donna. Qualcosa vorrà pur dire.
Deficit di rappresentanza
Il partito di Irto è in deficit di rappresentanza pure negli enti locali e territoriali. Fi, ad esempio, esprime una sindaca di comune capoluogo, a Vibo Valentia con Maria Limardo, e una presidente di Provincia a Cosenza, Rosaria Succurro, prima cittadina di un centro importante come San Giovanni in Fiore.
Per il Pd sembrano invece lontanissimi i tempi delle “sindache antimafia” (Girasole, Tripodi e Lanzetta, quest’ultima poi diventata anche ministra) in grado di testimoniare le buone capacità politiche e amministrative delle donne democratiche. Oggi tra le poche che tentano di portare avanti quella storia c’è Maria Teresa Fragomeni, a Siderno.
Troppo poco per un partito regionale che, in 14 anni di vita, è stato coordinato solo e soltanto da uomini. Chissà che l’ennesimo congresso post-elettorale non cambi qualcosa, anche in Calabria.