La premier va spedita sulle riforme costituzionali ma il suo progetto comprime i poteri del Quirinale e rischia di rendere le classi dirigenti ancora più supine dinanzi alle segreterie romane dei partiti. E i territori rischiano di restare senza voce
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Il Consiglio dei ministri in programma per oggi (3 novembre) ha all’ordine del giorno la riforma costituzionale tanto cara a Giorgia Meloni e alla destra in generale. L’idea della premier è quella di rafforzare i poteri del presidente del Consiglio dei ministri attraverso la sua elezione diretta da parte dei cittadini. La bozza di riforma prevede che in caso venga meno la fiducia del Parlamento al premier si torna immediatamente alle urne.
Messa così, però, si arriverebbe a un contrasto con il Quirinale, che perderebbe la sua principale prerogativa di sciogliere le Camere. Non solo ma tocca sempre al Capo dello Stato affidare il mandato di formare il nuovo Governo, dopo le rituali consultazioni con i partiti. In questo caso non ci sarebbero né mandati né consultazioni. Un cortocircuito che a Palazzo Chigi vogliono evitare per questo sono allo studio vari accorgimenti come quello che prevede un solo cambiamento durante una legislatura. Se anche il secondo premier cade allora il presidente della Repubblica scioglie le Camere per tornare al voto.
È ovvio che siamo ancora sul piano delle ipotesi perché il Consiglio dei Ministri con ogni probabilità licenzierà una bozza che dovrà avviare il lungo iter parlamentare che sfocerà poi in un referendum.
Meloni e i 'pieni poteri'
Messi da parte i fantasmi di Matteo Renzi e la conciliabilità di questa visione con l’autonomia differenziata di Salvini, la Meloni sembra voglia andare spedita sulla strada dei “pieni poteri”. Più di un osservatore, infatti, fa notare che al di là della riforma il nostro Presidente del Consiglio si stia già mettendo avanti col lavoro avocando a sè una serie impressionante di dossier.
Nel tempo la Meloni ha deciso di riunire la cabina di regia sull’immigrazione e gli sbarchi nelle sue stanze, non più al Viminale; stessa cosa ha fatto sul Pnrr e identica mossa ha in mente per il fumoso “Piano Mattei” di aiuti al Nord Africa che è stato sfilato alla Farnesina per passare nella solita struttura di coordinamento alle dipendenze della Presidenza del Consiglio.
La premier sostiene che tutto questo, riforma costituzionale in primis, sia necessario per garantire stabilità politica. Ma la stabilità in politica è davvero un valore? Con la riforma che ha in mente la Meloni il premier diventa una sorta di sindaco con capacità di “ricatto” evidenti: o si fa come dico io o si va tutti a casa. Una cessione di autonomia che va bene per una città meno per chi è alla guida del Paese.
Gli effetti in Calabria
Sembrano discorsi lontanissimi dalla Calabria, ma meno di quanto possa apparire a prima vista. Difatti già lamentiamo una classe politica protesa più a tutelare se stessa a Roma, dove grazie alla legge elettorale si decide la composizione del Parlamento, che gli interessi dei territori. In questi giorni ne stiamo avendo la dimostrazione plastica con i rappresentanti politici che si affannano ad avallare scelte del Governo che invece meriterebbero altro.
L’istituzione di una Zes unica, con stanziamenti palesemente insufficienti, non ha creato nessuna reazione. Anzi no, quelle di plauso dei parlamentari del centrodestra. Rfi annuncia che dopo cinque anni dalla firma del contratto con la Regione l’avvio delle gare per la realizzazione delle sottostazioni per l’elettrificazione della linea jonica e c’è anche qui chi batte le mani. Il vicepremier Matteo Salvini si presentò al Consiglio dei Ministri a Cutro con una cartellina con scritto ben in evidenza “Ss 106, Ponte, Alta velocità”. Cosa è stato messo in campo da allora nessuno l’ha ben chiaro, però sappiamo che nei giorni scorsi ha incontrato Roberto Occhiuto al Ministero per parlare di infrastrutture. Insomma se già la legge elettorale ha creato una classe dirigente totalmente supina a Roma, immaginiamo cosa potrà accadere con il premierato che sogna la Meloni.