Lo scontro tra il repubblicano Donald Trump e la democratica Kamala Harris non è solo politico ma è più che mai ideologico. Le elezioni del 5 novembre potrebbero dare il La a un nuovo ordine globale
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Mancano venti giorni al voto per le presidenziali Usa, uno dei più importanti degli ultimi cento anni. Lo scontro tra Donald Trump e Kamala Harris non è solo politico, ma è più che mai ideologico. Da un lato un’opzione che si richiama al pragmatismo attivo e solo per certi aspetti all’isolazionismo che prevalse alla Casa Bianca tra la fine della Prima Guerra Mondiale (1918) e la decisione, da parte di Franklin Delano Roosevelt, ma solo dopo la strage giapponese di Pearl Harbor (dicembre 1941), di entrare in modo decisivo a fianco di Regno Unito e Russia nel più grande e sanguinoso conflitto della storia. Trump ha un’idea nuova di multilateralismo che però tuteli al massimo gli interessi degli States: Make America Great Again è il suo slogan! La Harris, nonostante gli aggiustamenti di una campagna elettorale difficile, è l’erede di una visione, esaltata dall’uscente Joe Biden, di Stati Uniti riferimento assoluto per tutti e arbitro universale. Il voto del prossimo 5 novembre, quindi, tiene l’intero mondo con il fiato sospeso anche perché, come ha chiesto proprio di recente il leader russo Vladimir Putin: si avverte ovunque l’esigenza di un nuovo ordine globale.
Il nodo cruciale sta proprio qui, e rende secondaria ogni altra cosa. Il crollo del Muro di Berlino (1989) e poi dell’Urss (1991) aveva già dato il via al progressivo superamento degli accordi di Yalta siglati da Stalin, F. D. Roosevelt e Churchill dopo la sconfitta di Hitler e Mussolini: pianeta diviso in due sfere di influenza e il cosiddetto “equilibrio del terrore” determinato dalla reciproca minaccia nucleare detta anche “distruzione reciproca assicurata”. Da quella fase, mentre la Cina diventava di anno in anno un colosso economico e l’Occidente trovava conveniente assistere a questa ascesa, negli Stati Uniti una parte dell’establishment, soprattutto di orientamento democratico, e con a fianco gli interessi colossali di enormi multinazionali, veri e propri giganti economici più importanti e strategici di singoli Stati, si è convinta (ed ha agito in tal senso) di poter guidare e decidere le sorti dell’universo. Non più un duopolio, ma solo il primato americano: scientifico-tecnologico, economico, militare e culturale. Non si sottovaluti quest’ultimo aspetto, di tipo ideale e valoriale, in parte radicato nella teoria della società aperta sviluppata da Karl Popper. Un unico grande “sceriffo” nel pianeta che detta le regole (questa la contestazione che muovono i Brics), impone i propri modelli di sviluppo, le partite finanziarie e finanche gli stili di vita. Le resistenze sono cresciute nel tempo e ritengo che il maggiore errore politico-strategico dei democratici Usa sia stato quello di far saldare gli interessi di Russia e Cina, costruendo di fatto un incontrollabile colosso euroasiatico che dispone di tutto: popolazione, territori immensi, risorse naturali, tecnologia, armamenti. Ma accanto a Russia e Cina si sta muovendo anche l’India che proprio in questi giorni si è trovata al centro di una forte crisi diplomatica con il Canada. Apriamo una parentesi: i più convinti assertori del primato americano sono stati proprio i Paesi anglosassoni (Canada, Regno Unito, Australia). E intanto ai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) si sono aggiunti Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi Uniti. Né si trascurino i legami della Russia con la Corea del Nord.
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Fermiamoci un attimo e guardiamo all’Unione Europea, continente stanco e anziano, ricco di intelligenze che non fanno sintesi, azzoppato da visioni post-nazionaliste, soprattutto in Germania e Francia che talora immaginano di essere ancora ai tempi di Bismarck o di Napoleone. Il Vecchio Continente è condizionato eccessivamente, inoltre, dai piccoli Paesi del Nord Europa, per quanto nobili e ordinatissimi, ma figli anche di un integralismo protestante che si disperde nelle minuzie: si immaginano realtà perfette e coerenti, poco praticabili se non per una minoranza assoluta di individui. Un solo dato: tutta l’Unione Europea conta meno di mezzo milione di abitanti, mentre Cina e India da soli ne sommano 3 miliardi! Anche Indonesia e Pakistan, due dei più grandi Paesi musulmani, rappresentano assieme più residenti dell’Ue. Il “Risiko da fioretto”, continuo e stancante, cui assistiamo tra gli eredi decaduti dell’Età Moderna è diventato quasi patetico, se non fosse drammatico e perdente. E quindi la Germania è entrata in una crisi industriale tremenda, che investe proprio quel settore dell’auto in cui era leader. Ne abbiamo ripercussioni, tra Francia e Italia, su quello che potremmo definire l’ex caso-Fiat. Ma dove vogliono andare, da soli, tedeschi e francesi? Già l’Ue, se davvero unita, avrebbe problemi di sopravvivenza nello scontro epocale con Asia, America e Africa.
Ritorniamo ai segnali da decodificare, infilandoci nell’infero mediorientale. Israele continua a fare la propria politica, approfittando di questa pausa che la comunità internazionale si sta dando in attesa del voto Usa. Non so se Netanyahu sia davvero più “cattivo” di alcuni suoi predecessori: la storia e la politica pretendono ragionamenti più articolati e che purtroppo calpestano le tragedie umane, le morti di bambini, le violenze sulle donne, le torture, le sofferenze dei popoli mentre si ingrassano i venditori di armi. Israele sta prevalendo e riconfigura in fretta i propri confini difensivi perché anche il Mondo Arabo è in cerca di nuovi assetti, come tutto il Medio Oriente, Iran compreso. L’epoca del petrolio sta per finire e le strategie dei più potenti Paesi a trazione musulmana (con tante divisioni spesso strumentali) sono state adeguate alle necessità di penetrazione nei mercati globali con nuovi parametri e interessi. Gli estremismi e i fondamentalismi non convengono più a nessuno, o quasi, finanche a un Iran che nell’opzione multipolare ha molte carte da giocare. Nella Penisola Arabica vogliono turisti ricchi e investitori provenienti da ogni parte del Mondo, e intendono diventare player globali in tanti settori.
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Chiudo con un ultimo segnale da aggiungere a tutti gli altri ricordati anche in precedenti articoli. Ne ha scritto Michelle Goldberg sul New York Times, in maniera illuminante e parlando dell’Arizona, Stato considerato in bilico. Gli afroamericani maschi, con spiccata vocazione religiosa e spirituale, si sentono vicini a Trump e sono schierati apertamente contro le degenerazioni di un modo errato di intendere la globalizzazione anche sul fronte degli stili di vita e degli ideali primari. Chi vincerà? Venti giorni sono ancora tanti, e come abbiamo già avuto modo di vedere i colpi di scena si susseguono. Allo stato i segnali pro Harris sono più deboli, anche perché serpeggiano divisioni non proprio palesi nel suo stesso partito. In politica, però, come in amore, mai dire mai!