Dopo quattro scrutini ancora non c’è un nome condiviso per il Capo dello Stato. Al Paese non resta che prendere atto che metodi e logiche della classe dirigente restano quelli della Prima Repubblica (ASCOLTA L'AUDIO)
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Lo spettacolo indecoroso del teatrino messo su per l’elezione del Presidente della Repubblica, dimostra, ancora una volta, i limiti della politica italiana, incapace, alla prova dei fatti, di attestare che qualcosa sia davvero cambiato dai tempi della Prima Repubblica, come quando per eleggere Giovanni Leone, nel 1971, servirono 23 scrutini. Preistoria analogica che si riverbera nella vana digitalizzazione del presente.
Le logiche, le strategie, i capannelli, i caminetti. Tutto sembra immutabile in Italia, dove neppure la pandemia è riuscita a forgiare una classe dirigente consapevole e responsabile. Neppure i camion di Bergamo carichi di bare, gli striscioni ingenuamente ottimistici con su scritto “Andrà tutto bene”, l’avanzata dei negazionisti, la crisi economica, i nostri ragazzi in dad, gli ospedali saturi, gli appelli a fare presto, a fare qualcosa. Nulla è riuscito a mutare il Dna di una politica che non conosce vaccini abbastanza potenti da immunizzarla da sé stessa.
Un Parlamento delegittimato dal tempo che lo separa dalle ultime elezioni e ormai pieno zeppo di deputati e senatori che non saranno mai più eletti (e lo sanno), si arroga il diritto di sbeffeggiare il Paese con schede bianche, astensioni e cazzeggio assortito da ripiegare in quattro e infilare nell’urna per l’elezione del Capo dello Stato.
Quattro giorni e zero nomi. È questo il risultato del primo tempo che ha già bruciato l’opportunità di un’elezione “nobile”, quella maggiormente condivisa che avviene con i due terzi dei grandi elettori. Da oggi, dopo la terza votazione, basta la maggioranza assoluta, il 50 per cento più uno. Che altro non è che la resa all’italianità caciarona e inconcludente codificata nella Costituzione, ammissione di un peccato originale che i Padri costituenti non potevano far finta di ignorare. Come dire: ogni volta ci proveremo a eleggere insieme il Capo dello Stato, ma poi, dal terzo scrutinio in poi, non resterà che fare i conti con la nostra natura, eternamente guelfi e ghibellini.
Il risultato è un Paese disorientato ma assuefatto, consapevole che non c’è nulla di nuovo in quello che sta succedendo, perché è sempre la stessa storia che si ripete. Un Paese rassegnato ai silenzi imbarazzati di Mattarella, costretto suo malgrado a fare i conti con l’eventualità che gli tocchi la stessa sorte di Napolitano, letteralmente obbligato ad accettare di rimanere al Quirinale nel 2013, dopo le solite manovre di palazzo che impallinarono prima Marini e poi Prodi. Sono passati quasi dieci anni da allora (Napolitano poi si dimise nel 2015) e sembra tutto uguale o quasi.
D’altronde non è certo un caso che a guidare il governo, oggi, ci sia Draghi, un banchiere chiamato a certificare il fallimento della politica, un tecnico che si è ritagliato la sua credibilità sul palcoscenico internazionale, altra faccia di quella stessa italianità capace di esprimere eccellenza soltanto quando gioca lontano da casa.
E quindi ancora conciliaboli, veti incrociati, strategie tese fino al limite di rottura e poi lasciate penzolare slabbrate.
Che grande, nuova Italia sarebbe stata quella capace di eleggere il Presidente della Repubblica a larga maggioranza e al primo scrutinio, con un accordo raggiunto preventivamente tra tutti i leader di partito nelle settimane precedenti.
Che grande, nuova politica sarebbe stata quella che non trema come una foglia alla prospettiva di elezioni “anticipate”, mentre esplora in preda al panico tutte le strade per restare incollata a una poltrona che, nelle intenzioni degli elettori, non gli appartiene già più.
Alla fine avremo un Presidente della Repubblica e, come tutti gli altri, sarà probabilmente il migliore che il Paese può esprimere. Ma il prezzo pagato sarà un altro pezzetto della nostra credibilità.
degirolamo@lactv.it