È dai tempi di Berlusconi che gli italiani assistono ad una lotta senza quartiere fra i due poteri dello Stato che rischia di mettere in crisi le istituzioni. È il momento di trovare una sintesi sulle riforme
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Tre giorni dopo la comunicazione della Procura di Roma dell’iscrizione sul registro degli indagati di Giorgia Meloni, due ministri, Nordio e Piantedosi, e del sottosegretario agli Interni Mantovano, la premier decide di non abbassare i toni, anzi di impugnare la clava.
Durante la convention organizzata dal giornalista Nicola Porro, la presidente del Consiglio è intervenuta in video collegamento attaccando a testa bassa i giudici, colpevoli, a suo giudizio, di aver straripato dalle loro funzioni. Arrivando a censurare un atto che per il Governo rientra fra le ragion di Stato, visto che la Libia è partner strategico per l’Italia, sia per il rifornimento di gas sia per la gestione, per quanto discutibile, dei flussi migratori.
E proprio nel perimetro delle politiche migratorie che da qualche mese a questa parte si è acceso lo scontro fra esecutivo e magistratura, a partire dal “protocollo Albania” quando tre tribunali hanno annullato il trasferimento dei migranti nei centri realizzati oltre confine. Da lì in poi è stata una escalation culminata appunto nella comunicazione di iscrizione nel registro degli indagati, che la Meloni ha spacciato per avviso di garanzia, sulla confusa scarcerazione di Almasri.
Ci si sarebbe aspettati una flessione nei toni utilizzati, giacché i cittadini assistono abbastanza attoniti a questo clima di contrasto senza tregua che si è creato. Certo, per gli italiani non è una novità. Per trent’anni hanno assistito al braccio di ferro fra Berlusconi e i giudici, ma proprio per questo si inizia a percepire la stanchezza nella gente.
Giorgia Meloni, poi, dovrebbe essere più prudente se si considera che nel suo partito e nel Governo non mancano gli indagati e i rinviati a giudizio. Fra cui anche il ministro Daniela Santachè che di dimettersi non vuole proprio saperne. Ma allora cosa ha spinto la premier ad un attacco così frontale? Ormai la politica corre sui social. E i rumors riferiscono che nel perimetro del suo staff i suoi consigliori si stiano sfregano le mani.
L’algoritmo social ha premiato il video contro i magistrati e il sentiment dice che c’è una certa ritrosia della gente contro le toghe. Dovute ad un meccanismo, quello della giustizia, che non funziona come dovrebbe e non sempre per colpa dei suoi interpreti piuttosto per limiti strutturali che lo rendono lento e arrugginito.
Da qui la strategia della Meloni di presentare un’immagine della magistratura così simile a come si presenta oggi dinanzi agli occhi dei cittadini, ovvero poco terza, poco rassicurante. Basti pensare all’ondata di indignazione che ha suscitato il caso Palamara e le sue incredibili rivelazioni sui meccanismi di funzionamento interno del mondo delle toghe. Sarebbe necessario abbassare i toni, da parte di tutti. Minare la credibilità della magistratura di certo non può far bene al Paese e allo Stato di diritto.
Nello stesso tempo la stessa magistratura non può continuare a far finta di nulla e arroccarsi in una difesa ad oltranza della categoria considerandola immune da ogni riforma. Se un guasto c’è, deve essere riparato attraverso un dialogo costruttivo fra le parti. «Quando un potere dello Stato – ha detto ieri la Meloni – pensa di poter fare a meno degli altri, il sistema non può tenere».
Una sorta di appello a trovare una sintesi nell’interesse del Paese e di un sistema che magari presenta qualche lacuna, ma che ad oggi, basterebbe vedere cosa accade negli Usa, sembra essere il più equilibrato di tutti. A patto che tutti facciano mezzo passo indietro per trovare una giusta sintesi.