Mangialavori ce lo siamo giocato. L’ex senatore oggi deputato non sarà sottosegretario. Di cosa, non importa: chi lo voleva nelle seconde file del Governo non si poneva il problema di quale fosse il suo ruolo, basta che arrivasse a Palazzo Chigi. Ma Giorgia Meloni ha detto no. Il motivo? Mangialavori è “chiacchierato”. Lo dice Repubblica, che al deputato vibonese ha dedicato due giorni fa, alla vigilia delle nomine, un devastante (politicamente) articolo che riassume le vicende para-processuali di Mangialavori. Il suo nome, infatti, è echeggiato nelle aule di giustizia nell’ambito di alcune inchieste di ‘ndrangheta, tirato in ballo da un pentito il quale ha riferito che, a suo tempo, sul successo politico del noto medico vibonese avrebbero puntato persone poco raccomandabili.

In pratica, il primo giornale progressista (anche se in realtà è edito dagli Agnelli, il più fulgido esempio di capitalismo familiare italiano) detta la linea e Meloni si adegua. Motivi di opportunità politica, si dice in questi casi. Vero. D’altronde le carte sono pesanti. Ma sono le stesse carte che hanno scritto i magistrati in prima linea contro la mafia più potente del mondo, la ‘ndrangheta appunto. Gli stessi magistrati che, alla fine, non hanno indagato Mangialavori, ritenendo evidentemente che non vi fossero ipotesi di reato da perseguire, limitandosi a riportare doverosamente nei fascicoli delle loro inchieste i momenti in cui il coordinatore calabrese di Forza Italia viene citato da altri.

Insomma, il deputato vibonese non ha mai ricevuto un avviso di garanzia, né risulta in alcun modo indagato. Se lo sarà in futuro non è dato sapere, salvo avere una palla di cristallo o informazioni di prima mano che un normale cittadino non può raggiungere, ma, forse, un presidente del Consiglio sì.

A quanto pare, dunque, la “presunzione di estraneità” non basta e Mangialavori è finito nella lista nera di Palazzo Chigi. Ed è singolare notare come un tale rigore venga dallo stesso Governo che ha già annunciato di voler modificare la legge Severino che disciplina i casi di decadenza dalle cariche pubbliche dei condannati, la stessa che ha tenuto per nove anni Berlusconi fuori dal Parlamento. Legge considerata troppo giustizialista dalla maggioranza di centrodestra, nonostante si riferisca a chi una condanna l’ha già subita, anche se solo in primo grado.

La stessa maggioranza che sostiene un Governo nel quale siede oggi forse il ministro della Giustizia più garantista che si potesse scegliere, l’ex magistrato Carlo Nordio, tra i principali sostenitori del Sì ai referendum abrogativi che si sono tenuti il 12 giugno scorso. Consultazione popolare poi naufragata nella mancanza di quorum, che, come si ricorderà, era stata promossa da Lega e Radicali per abrogare proprio la legge Severino e separare le carriere dei magistrati.

Oggi non è servita alcuna norma per tenere fuori dalla compagine governativa Mangialavori. È bastata la politica. E il garantismo, qualunque cosa significhi, può aspettare la prossima campagna elettorale.