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Nomen omen, il nome è un presagio. Con Wanda Ferro è facile questo giochetto. Perché Wanda Ferro è tosta davvero. Quarantanove anni, senza figli, single ma “sposata” con la politica, «una scelta - dice - di cui in futuro forse mi pentirò», la ex presidente della Provincia di Catanzaro, unica donna ad aver mai rivestito questo ruolo in Calabria, è consapevole di rappresentare anche un simbolo di emancipazione e indipendenza in una regione che più che altrove stenta a dare spazio all’altra metà del cielo.
È una che ha fatto la gavetta, iniziando ad avvicinarsi alla politica a 14 anni e poi stemperando lentamente la sua indole da destra sociale in tutti gli stadi evolutivi della sua parte politica, dall’Msi ad Alleanza nazionale, dalla Casa delle libertà a Forza Italia, di cui oggi è un dirigente. Ma è innanzitutto una persona che dice di odiare i compromessi, di disprezzare i cambi di casacca. Parafrasando il titolo di un libro del magistrato Nicola Gratteri, sostiene di non avere «né padrini né padroni, ed è questo che probabilmente intimorisce la politica calabrese».
«In Calabria - continua - si ragiona troppo spesso solo con il vento a favore. Il trasformismo, l’inciucio sono il male assoluto. Se in politica ci fossero più donne ci sarebbero meno accordi finalizzati esclusivamente ad acquisire e gestire il potere. È questo il peccato originale che ha decretato il fallimento di 20 anni di regionalismo. Cambiano gli schieramenti, cambiano le bandiere, ma non cambiano mai gli uomini».
Lei, invece, rivendica di «essere sempre stata dalla stessa parte» e questo alla politica calabrese non piace.
«Più che altro, temono la mia dignità politica e personale, che sono cose inscindibili – aggiunge -. La politica non si fa con la morale, ma neppure senza. Io non abbasso la testa, non sono governabile. Per la presidenza della Regione ho fatto una partita a perdere sin dall’inizio, ma la rifarei. Non c’erano i presupposti per vincere. Il centrodestra era ai minimi storici, uomini e istituzioni di Forza Italia avrebbero votato a sinistra e poi c’era la nuova legge elettorale, palesemente incostituzionale, varata quando il Consiglio era in regime di prorogatio. Eppure, rifarei tutto».
Siamo nel novembre del 2014. Mario Oliverio, il candidato del Pd, vince, ma lei resta fuori anche dal Consiglio regionale, a causa di quella legge approvata nelle stanze chiuse. È uno scandalo, una palese ingiustizia che mortifica il senso stesso delle elezioni. La stampa se ne accorge e sostiene la sua battaglia per entrare nell’Assemblea.
«I giornalisti sono stati gli unici a non abbandonarmi - ricorda -, se non fosse stata per l’attenzione dei media io oggi sarei un cadavere politico. Gli altri, invece, hanno visto una possibilità e l’hanno colta: togliamola di mezzo, hanno pensato. Nessuno ha mai alzato il telefono per chiamarmi, né prima né dopo. Ma io non mi sono arresa e dopo più di due anni e la decisione del Tar sono entrata in Consiglio a testa alta».
Dove, sia chiaro, non ha nessuna intenzione di restare zitta e buona, a cominciare dal fatto che pretende venga riconosciuto il suo ruolo in seno all’opposizione di cui sin dall’inizio, in teoria, avrebbe dovuto essere il punto di riferimento. A settembre c’è un appuntamento cruciale: il rinnovo delle cariche della presidenza dell’Assemblea. Ora che tutti si sono sperticati in lodi al Tar e in ogni genere di benvenuto, il minimo che ci si aspetterebbe è che la casella della vicepresidenza che spetta alla minoranza venga occupata da lei.
«Vedremo come si comporteranno, anche se credo che sia un fatto dovuto e doveroso - rimarca, non lasciando dubbi sulla sua aspettativa -. Quello che è certo, è che dal 6 luglio il Consiglio regionale è bloccato, non può firmare una carta, non può operare. Questo è assurdo. Ciò che dovrebbe davvero fare la politica è liberare le persone dal bisogno. Ma questo la politica non lo vuole fare perché il bisogno porta voti».
Se ci fossero più donne in politica sarebbe diverso, o forse no. Ma è proprio l’opportunità di provare che manca. «Nella mia città, su un muro di via Acri, c’è scritto: ci piace il sole, ma siamo in grado di scatenare le tempeste. Ecco, credo che dovrebbe essere questo il motto delle donne in Calabria. Una donna vive la realtà a 360 gradi, ha una visione d’insieme che a molti uomini manca. Questo non vuol dire che basti essere donna per fare bene. Pensiamo ai tanti comitati e alle tante commissioni sulle pari opportunità. Potrebbero essere strumenti di straordinaria efficacia, ma spesso chi guida questi organismi risponde solo al padrino o al padrone che l’ha nominato. E poi ci sono donne grandissime, come Anna Maria Longo …».
Un tributo, quello verso la storica dirigente della sinistra calabrese scomparsa nel 2012, che non imbarazza affatto la rappresentante di Forza Italia. Anzi.
«Ho dimostrato da tempo di non avere gabbie ideologiche - dice Ferro -. Dalle donne di sinistra ho imparato l’effetto dirompente che possono avere le rivoluzioni senza odio né sangue di cui sono state protagoniste nel corso dell’ultimo secolo per la conquista della parità dei diritti».
E quando le si ricorda che milita in un partito guidato da un leader, Berlusconi, spesso accusato di comportamenti sessisti, risponde che a destra «è più forte il valore della meritocrazia». «Il maschilismo è radicato in tutta la politica, così come nella società italiana - aggiunge -. La sinistra vuole apparire come il santuario del "politicamente corretto", ma è un atteggiamento ipocrita, perché non hanno mai avuto alcun rispetto per il valore delle donne schierate dall'altra parte, come se il loro unico merito fosse quello di compiacere il leader. A Berlusconi va riconosciuto di aver saputo dare valore a donne capaci, affidando loro incarichi di responsabilità nel partito e nelle istituzioni».
Enrico De Girolamo