Per la prima volta il senatore che formalmente ancora guida i democrat calabresi ha sostenuto pubblicamente la candidatura del governatore alle prossime regionali, per difenderlo da Matteo Richetti che dalla Gruber lo ha definito il “capobastone” della Calabria. Una scelta di campo che impegna il Partito democratico prima degli appuntamenti congressuali che potrebbero cambiare radicalmente gli equilibri interni
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C’è voluto un casus belli, un pretesto rimbalzato dalla scena nazionale, ma alla fine il segretario regionale del Pd, Ernesto Magorno, è uscito allo scoperto e ha dichiarato la condivisione del progetto di Mario Oliverio, che recentemente ha lanciato la sua candidatura alla presidenza della Regione.
A costringere Magorno a battere un colpo è stata l’uscita dell’ex portavoce di Renzi, Matteo Richetti, a Otto e Mezzo su La7, dove ha annunciato la sua intenzione di candidarsi alla segreteria nazionale del partito. Alla domanda di Lilli Gruber, che gli chiedeva in cosa sarebbe diversa la sua idea di Pd, Richetti ha affermato che il primo passo è sottrarre il partito all’influenza dei “capobastone” come i presidenti di Campania e Calabria, rispettivamente Vincenzo De Luca e, appunto, Mario Oliverio. Dichiarazioni che hanno fatto scattare il twitt di Magorno: «In Calabria, insieme a centinaia di sindaci, siamo con Mario Oliverio».
Poche parole che però, per la prima volta, espongono il Pd calabrese alle conseguenze politiche di una scelta che il partito, nella sua collegialità, non ha fatto. Al diavolo congressi, primarie, dialettica interna ed esterna. Tutto superato e superabile se Oliverio decide di forzare la mano, rinnegare le sue stesse parole («la presidenza della Regione sarà la mia ultima volta») e mettere il cappello su una candidatura estremamente controversa per assicurarsi una sopravvivenza politica che altrimenti gli sarebbe molto difficile.
Tutto passa in secondo piano, anche le tiepide aspirazioni di vittoria del centrosinistra, già ridotte al lumicino non solo dagli scarsi risultati del governo regionale negli ultimi quattro anni, ma anche dalla legge non scritta dell’alternanza, che in Calabria non ha mai fallito. A Oliverio non importa la sorte del suo partito; gli interessa prima di tutto restare nel giro e sedere in futuro in Consiglio regionale.
Se così non fosse non si spiegherebbe l’assoluta emarginazione del Pd nazionale e calabrese dalle scelte che il governatore ha fatto nelle ultime settimane. È forse la prima volta in Italia che un presidente di Regione completamente organico al suo partito, membro della direzione nazionale, impone la sua candidatura prima dei congressi, che potrebbero ridisegnare completamente gli equilibri interni.
Se, per ipotesi, il nuovo segretario dovesse diventare Zingaretti o anche lo stesso Richetti, come farebbe il Pd a digerire la ricandidatura di Oliverio? Ragionamenti che il presidente ha già fatto, rispondendo con la forza del ricatto politico perpetrato nei confronti dei sindaci calabresi, che in cento sono stati costretti ad avallare la sua strategia per non correre il rischio di essere tagliati fuori dai programmi di finanziamento che la Regione gestirà da qui alla fine della Legislatura, tra un anno esatto.
Un’operazione spregiudicata, che del Pd già a pezzi ha fatto coriandoli. Magorno, che sulla carta è ancora il segretario del partito in vista dell’appuntamento congressuale che dovrà indicare il suo successore, questi coriandoli li sta ora lanciando in aria. Se fino ad oggi aveva evitato di sostenere apertamente il progetto di Oliverio, condiviso magari a tavolino con lui ma mai appoggiato con dichiarazioni pubbliche, ora - grazie alla polemica con Richetti - ha saltato il fosso, mossa che gli consente anche di sfilarsi senza tanti clamori dall’area renziana del partito, alla quale ha sempre ostentato l’appartenenza.
Così, mentre ancora veste i panni di segretario regionale, si schiera senza se e senza ma al fianco di Oliverio, infilando in un twitt tutto il disinteresse per la fantomatica “base”, per quel “popolo del Pd” che a parole viene esaltato in ogni occasione, ma nei fatti, per l’ennesima volta, viene considerato meno di zero da chi avrebbe il dovere di difendere le idee prima che le proprie posizioni di potere.
Enrico De Girolamo
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