Che Giuseppe Conte non avesse la stoffa dello statista è stato sempre evidente, sin da quando nel maggio del 2018 faceva avanti e indietro dal Quirinale a causa del veto di Mattarella sull’ipotesi di Paolo Savona ministro dell’Economia. Prima presidente del Consiglio incaricato, poi dimissionario, poi di nuovo incaricato quando venne superato lo stallo ripiegando su Giovanni Tria al Mef.

La satira, che in quel periodo già ironizzava sul fatto che Conte non lo conoscesse nessuno, lo prese di mira: “Presidente del Consiglio lo metto comunque nel curriculum”, fu la battuta fulminante che lo inchiodò a una realtà grottesca nella quale (difficile crederci oggi) Luigi Di Maio chiedeva addirittura l’impeachment del Presidente della Repubblica perché aveva osato dire no a Savona, noto per le sue posizioni antieuropeiste che si spingevano a teorizzare l’uscita dell’Italia dalla moneta unica attraverso il fantomatico “Piano B”.

Sembra passato un secolo, invece sono appena quattro anni. Ma il Conte di allora non è molto diverso da quello di oggi, nonostante in mezzo ci sia stata la pandemia, i camion di Bergamo, i lockdown, gli striscioni con “Andrà tutto bene”, le conferenze stampa a reti unificate da Palazzo Chigi organizzate da Rocco Casalino, i banchi a rotelle e le mascherine a pannolino.

Intendiamoci, l’Avvocato degli italiani (come si ribattezzò egli stesso in un eccessivo afflato storico) ce la mise tutta, e nel famoso curriculum oggi può legittimamente ostentare di aver guidato il Paese nel momento più difficile dalla Seconda guerra mondiale. E forse, se si fosse fermato a questo, tornando a insegnare all’Università come aveva assicurato di voler fare dopo aver consegnato, il 13 febbraio del 2021, la campanella del Consiglio dei ministri a Mario Draghi, sarebbe stato meglio.

Avrebbe raccolto gli allori di una promozione sul campo di battaglia di una guerra, quella contro il Covid, che purtroppo non è ancora vinta. Forse sarebbe davvero passato alla storia, o quanto meno avrebbe interrotto la sua biografia su Wikipedia senza note dolenti. Ma il potere, una volta assaggiato, non si fa più dimenticare. E così ha continuato, “autoproclamandosi” capo politico di un Movimento che ancora non si è capito se lo vuole o meno, anche perché non sa esso stesso, il Movimento, cos’è oggi e in quanti rivoli è disperso.

E non si dica che “hanno deciso gli iscritti”, perché la pantomima delle votazioni online era già chiara ai tempi della piattaforma Rousseau, quando ancora c’erano i Casaleggio. Sempre risultati già annunciati e sempre con maggioranze bulgare. Mai una volta che il voto online dei pentastellati abbia espresso un’ombra di autentico, sano e democratico dubbio.

L’ultima volta in ordine di tempo è stata ieri, quando Conte ha sottoposto la sua guida, bontà sua, al voto degli iscritti. E oplà: il 95 per cento dei votanti ha detto Sì. Ed è quasi pleonastico ricordare che hanno votato in 59.047 su 130.570 iscritti, meno della metà, a fronte dei 10 milioni e mezzo di voti che il M5s raccolse nelle ultime elezioni, quelle di marzo 2018.

Basterebbero questi numeri a dare la misura di quanto sia apparso fasullo Conte quando, prima del voto online, ha detto: «Se il risultato sarà risicato farò un passo indietro. C'è bisogno di una leadership forte». Che sprezzo del ridicolo.

Ringalluzzito da questa investitura dopata e tronfio della “leadership forte” appena conquistata, Conte ha lanciato la sfida a Draghi, mettendosi di traverso sul programmato aumento delle spese militari. E non perché Draghi sia un guerrafondaio, ma perché è il premier di un Paese che fa parte della Nato, dove l’aumento delle spese militari per la difesa dall’1,6 al 2% di Pil è già previsto da un accordo tra gli Stati membri - il Defence Investment Pledge - del 2014, che stabiliva l’incremento fino al tetto previsto entro dieci anni.

Nel frattempo è arrivata l’invasione russa in Ucraina, e l’Alleanza atlantica, quella dalla quale il presidente Trump voleva uscire con la benedizione dei sovranisti di mezzo mondo, è la stessa Nato dietro la quale, oggi, volenti o nolenti, ci ripariamo. Mantenere questo impegno – ha detto Draghi - «è fondamentale per l'integrazione politica, perché la garanzia di una difesa europea è la garanzia che non ci faremo più la guerra».

Ma Conte ha deciso che i soldi vanno spesi per altro. Legittimo e anche profondamente politico. Ma è pronto ad aprire la crisi e a far cadere il Governo? Nell’ultime ore gli hanno rivolto questa domanda tutti i giornalisti che ha incrociato sulla sua strada e ogni volta l’ex premier l’ha presa alla larga, molto alla larga.
Messo alle strette ha comunque assicurato che il M5s (ricolmo di deputati e senatori all'ultimo giro di giostra) voterà il decreto Ucraina sul quale Draghi ha posto la fiducia, lo stesso decreto che prevede l’invio di armi al Paese attaccato da Mosca.

Logica strana per la quale inviare armi agli aggrediti è cosa buona e giusta (forse perché è stata posta la fiducia e le chiacchiere stanno a zero?), ma approvare un odg in Consiglio dei ministri per aumentare la spesa dello 0,4% al fine di rinforzare la difesa dei confini nazionali e della Nato no, non va bene.

Il sospetto è che dietro ci sia un banale calcolo politico per accarezzare un elettorato deluso e distante, usando le stesse argomentazioni di Alessandro Di Battista, ultimo sacerdote dello spirito pentastellato delle origini, che ha definito Draghi «nonno al servizio di Biden». Ma Conte, a differenza di Di Battista, ha tutto da perdere, a cominciare dalla sua già claudicante credibilità. Draghi lo sa e ieri, con un gesto teatrale, è “salito al Quirinale” per conferire con il Presidente della Repubblica. Un modo per tagliare corto, vedere le carte del M5s e, probabilmente, svelare l’ennesimo bluff.