Giorgia Meloni vuole sgonfiare la ciambella di salvataggio affinché galleggi appena e la politica italiana impari finalmente a nuotare. La “madre di tutte le riforme” varata dal Consiglio dei ministri e ora incardinata nell’iter parlamentare che dovrebbe portare alla sua approvazione, «serve all’Italia, non a me», ha detto la premier. Inutile speculare sulle recondite motivazioni, che secondo i più scettici risiedono in realtà nella volontà di cavalcare quel quasi 30 per cento di consenso elettorale di cui ancora gode la leader di Fratelli d’Italia, blindando così la sua permanenza a Palazzo Chigi per gli anni a venire. 

Meglio concentrarsi sul contenuto della riforma costituzionale proposta, formata da cinque articoli che andrebbero a modificare diversi punti della nostra Carta. La leva principale, quella del cosiddetto “premierato forte”, prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio, oggi “scelto” dal Quirinale in base alla maggioranza politica disposta a sostenerlo. «Sarebbe la fine dei ribaltoni e dei governi tecnici», assicura Elisabetta Casellati, ministro di Forza Italia per le Riforme istituzionali. «In 75 anni di storia repubblicana - ha ribadito ad Antonella Grippo, nella nuova puntata di Perfidia su LaC Tv - si sono succeduti 68 governi dalla durata media di 14 mesi. La riforma è finalizzata a dare stabilità». 

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È questo il grimaldello logico per scardinare norme cruciali della “Costituzione più bella del mondo”, che a quanto pare, però, puntualmente viene messa in discussione. L’ultimo che ci ha provato a cambiarla mentre era sulla cresta dell’onda, Matteo Renzi, ne è uscito con le ossa rotte. Perché poi, alla fine, come per una sorta di incantesimo “buono” gli italiani dicono no, forse inconsciamente consapevoli che i solidi paletti della Carta sono l’ultimo baluardo che impedisce alla farsa politica - dal Bunga Bunga al Papeete, solo per evocare due momenti topici della storia italica recente - di inquinare i pozzi della democrazia. E l’argine più importante alla mancanza di serietà è senza dubbio il Presidente della Repubblica, sul quale aleggia lo stesso incantesimo: salvo pochissimi casi più controversi, come inquilino del Quirinale il Parlamento ha sempre scelto il meglio che il Paese potesse offrire a difesa della Costituzione. E quando non c’era (o era impossibile arrivare a un accordo), è ricorso all’usato sicuro, come nel caso del doppio mandato affidato a Napolitano e Mattarella.

La riforma targata Meloni – che tanto piace anche al governatore Occhiuto - depotenzia proprio il ruolo del Capo dello Stato, ridotto a mero “notaio” della Repubblica. Anche sottolineare con tanta enfasi che con questa riforma si direbbe addio ai “governi tecnici”, esprime una profonda ipocrisia, perché ogni esecutivo è sempre stato sostenuto da una maggioranza politica in Parlamento, senza la quale non sarebbe potuto mai nascere.

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Nella storia repubblicana, i governi tecnici sono stati solo quattro. Prima di Mario Draghi, rimasto in carica dal 13 febbraio 2021 al 22 ottobre 2022, con il sostegno dell’intero arco parlamentare a esclusione proprio di Fdi, a Palazzo Chigi come indipendenti sono saliti Carlo Azeglio Ciampi (1993), Lamberto Dini (1995) e Mario Monti (2011). In ogni occasione, gli indipendenti designati dal Presidente della Repubblica hanno assunto un incarico gravoso per tirare fuori il Paese dalle secche economiche e politiche, traghettandolo verso nuove elezioni.

Ogni volta sono stati acclamati come salvatori della Patria e ringraziati fino allo sfinimento per aver accettato, salvo poi, quando non servivano più, essere ripudiati. Emblematico il caso di Mario Monti, chiamato per evitare all’Italia la stessa sorte della Grecia, finita in un default di cui ancora oggi paga le conseguenze. Missione compiuta e subito dimenticata. Stessa cosa vale per Draghi, che durante la pandemia faceva gonfiare il petto d’orgoglio agli italiani per il suo prestigio e l’autorevolezza internazionale, ma ora - una volta concluso il suo compito - viene additato anche da chi aveva ministri nel suo governo.

Con la “madre di tutte le riforme” (espressione sinistra di cui i più hanno perso memoria, dimenticando che è una parafrasi di quanto detto da Saddam Hussain durante la Guerra del Golfo con “la madre di tutte le battaglie”) tramonterebbe la possibilità di ricorrere a un “tecnico” (con fiducia politica) in caso di necessità, un po’ come rinunciare a chiamare l’idraulico se hai la casa allagata da un tubo rotto. La parola tornerebbe subito agli elettori, senza alcun traghettamento in sicurezza verso le urne. Intanto la casa continuerebbe ad allagarsi, ma la ciambella di salvataggio ormai sarebbe troppo sgonfia per poterla usare. E non resterebbe che bere o affogare.