Lo studio di Franco Ambrogio sembra un luogo di culto e la biblioteca è la prima cosa che un cronista nota quando varca l’uscio di casa sua. Imponente, dal fascino novecentesco, esattamente di un’altra epoca. Forse come la storia del Partito Comunista calabrese, racchiusa alle sue spalle in qualche migliaio di volumi. Lì dentro c’è tutto, c’è tutta la sua storia politica, c’è la Calabria stritolata dalla Dc e dal Psi.

Ambrogio è stato Deputato della Repubblica Italiana dal 1976 al 1987, segretario regionale del PCI dal 1970 al 1980, responsabile della commissione meridionale della direzione del PCI dal 1980 al 1983 e vicesindaco di Cosenza dal 2006 al 2011.

«Senta - dice - non voglio che questa intervista abbia un taglio nostalgico. Glielo dico subito. Parliamo del passato per capire il presente. Perché se scivoliamo su un tempo perduto, quello della giovinezza, manchiamo il bersaglio».

Sono qui per questo, onorevole.
«Ecco, perché quello che succede oggi in Calabria è figlio di ciò che avvenne ieri. Quando qualcuno dice che 40 anni fa le cose qui da noi andavano bene, è la menzogna più grossa che possa proferire. Le fondamenta che crollano sono state gettate 50 anni fa. Quindi non rimpiangiamo proprio niente: l’assistenzialismo nacque dagli anni ’60-’70 in poi».

Parte forte, ma vorrei sapere innanzitutto cosa fa un vecchio comunista in pensione.
«Leggo e scrivo».

Cosa in particolare?
«Leggo ogni giorno giornali, libri di politica, di storia ed economia e, non in parte residuale, di narrativa».

Col ‘900 ha chiuso?
«Nella storia non ci sono capitoli che si chiudono schioccando le dita, meccanicamente. Influenzano sempre il futuro, quindi le pagine che vengono dopo. Qualcuno disse che con la fine del ‘900 terminava la storia. Invece non è finita e riemergono problemi seri. Come il nazionalismo».

Senta, lei è del 1942…
«Dicembre ‘42 diceva mia madre, ci teneva».

Sì, dicembre 1942. Ma come diventò comunista? E come lo divenne in Calabria, baluardo della monarchia prima e dello scudo crociato poi?
«La mia famiglia è di origine cattolica e democristiana, legata a Pierino Buffone prima dei suoi successi elettorali. La mia progressiva adesione alla sinistra e poi al Pci generò una lacerazione familiare e non solo politica. Con i miei non fu semplice. L’infatuazione arrivò da studente, avevo 17-18 anni».

Grazie a chi?
«L’occasione e gli strumenti mi furono dati da un mio professore, Franco Peluso, che insegnava italiano e storia e che in seguito divenne senatore. Ebbi pertanto una formazione di tipo culturale e la sua figura la ritengo tuttora decisiva».

Fu solo questione di libri?
«No, perché soffiava forte il vento del movimento studentesco e dell’anti-colonialismo. A Cuba c’era la rivoluzione, quando in Congo ammazzarono Lumumba scioperammo».

E la polizia?
«Una volta finii in Questura».

Che fa, tiene per sé la storia?
«Volevamo organizzare uno sciopero a Cosenza, distribuimmo dei volantini ciclostilati agli altri studenti. Dei poliziotti in borghese mi si avvicinarono, mi strapparono i manifesti e mi portano nella vecchia sede della Questura nel centro storico. La mattina dopo il commissario mi volle accompagnare personalmente dal preside per segnalare l’intollerabile situazione. Il tutto tra lo stupore dei ragazzi. Nei primi anni ’60 era questa l’aria che si respirava, la stessa aria che sfociò nelle proteste del’ 68. Sembrano fatti lontani anni luce, ma erano i colpi di coda degli anni ’50 con molta repressione e con un’impalcatura patriarcale nelle famiglie. Una cultura bigotta».

Beh… se la Dc era bigotta, non mancavano certo i puritani nel Pci. Oriana Fallaci ne chiese apertamente conto in un’intervista a Giorgio Amendola.
«Lo fece perché parte dei dirigenti comunisti dell’epoca erano contrari alla relazione tra Togliatti, già sposato, e Nilde Iotti».

Lei, come gli altri padri fondatori del Pd, ha lasciato un’eredità scomoda. Davvero non c’era alternativa al mischiare falci, martelli, croci e garofani rossi? Ne è venuta fuori un’accozzaglia litigiosa. 
«L’alternativa c’era. Dovevamo fare evolvere le caratteristiche principali del comunismo, rivedendo il giudizio sull’esperienza del socialismo reale. Potevamo guardare al socialismo europeo, anche in modo critico».

Invece vi siete innamorati del sogno americano.
«Più che del sogno, di ideologie a stelle e strisce che non avevano radici in Italia».

È una critica a Veltroni?
«Non solo, perché lui lo disse apertamente. Altri si piegarono a ideologie neoliberiste».

Facciamo un salto nel presente, parliamo di Calabria. Le piace il modo di governare di Roberto Occhiuto?
«Che ci sia lui o un altro, non è questo il punto. Il problema non è Roberto Occhiuto, ma quello che deriva da un tempo molto lungo. C’è il fallimento di un istituto, il fallimento di un sistema».

Una delle accuse che gli muovono riguarda l’Autonomia differenziata e la posizione morbida assunta.
«La sciagura del regionalismo dimostra che il Mezzogiorno è stato danneggiato. Con l’Autonomia differenziata il processo diverrà irreversibile, qualora non lo sia già. La posizione di Occhiuto, e non solo la sua, è velleitaria. Pensare come fanno alcuni che con maggiore autonomia il sud possa godere di condizione migliori è un’illusione. Anzi, è un errore. Pensiamo che potrebbe succedere con la scuola…».

…O con la Sanità.
«Esatto. Il punto di non ritorno è stato sempre il regionalismo. Tutto iniziò da lì. Affermare che, al netto della migrazione sanitaria in essere, l’ospedale più grande della Calabria sia fuori regione credo sia pacifico».

Torniamo a noi. Ha spiegato perché diventò comunista. È corretto dire che lei fu più un comunista, mi passi il termine, “di governo”, che di lotta?
«Forse sarà banale, ma devo fare un passo in avanti prima di rispondere. Quando il PCI cambiò nome rimasi sbalordito dal fatto che la reazione fu ostile a causa del residuato ideologico dei dirigenti. Quando aderii al PCI il collante ideologico era sì marcato, ma noi eravamo comunisti in Italia e non a Mosca. Le nostre esigenze miravano a portare maggiore libertà e democrazia nel nostro paese. Da qui il mio atteggiamento molto critico verso l’esperienza del comunismo reale: non rifletteva i due valori di sopra. Sulla base di questo discorso, la questione posta nella domanda si risolve dicendo che vivevamo in funzione di diventare un giorno maggioritari e imboccare la via del governo».

Dopo la notte del blitz del generale Dalla Chiesa all’Unical che andava a caccia di terroristi rossi, si tenne un’infuocata assemblea a Cosenza. Il racconto più ricco di particolari narra che lei e Nicola Adamo, all’epoca segretario dei giovani comunisti, arrivaste allo scontro con i socialisti di Mancini. Li accusavate di dare coperture politiche agli estremisti.
«E’ una narrazione un po’ forzata e la frase che cita, dopo tanti anni, non la ricordo. Guardiamo alla sostanza ed entriamo nel merito. Le ricostruzioni storiche dicono che le nostre affermazioni erano corrette: ci fu il tentativo – così ci esprimemmo in un documento regionale del PCI – di creare una cellula che si collegasse con quelle eversive in Italia. Tutta la storia recente dimostra la validità di quella valutazione. Nacque, sì lo ammetto, un forte scontro con Mancini che non condivideva la valutazione, ma cercava di utilizzare queste esperienze extraparlamentari con funzione polemica verso di noi. All’Unical c’è ancora qualche muro che parla di me».

Si spieghi meglio.
«Se cerca bene, alcuni padiglioni dell’università sono pieni di scritte contro il sottoscritto».

È vero che litigava sempre con Giacomo Mancini?
«Sì, avevamo due caratteri difficili. Ma la ragione non era questa. Nella seconda metà degli anni ’60 Mancini era protagonista assoluto della vicenda politica e amministrativa nazionale e il peso si rifletteva in Calabria. Dall’altra il PCI viveva una crisi acutissima per l’esaurimento delle piattaforme politico-sociali degli anni ’50. Lo scontro si acuì con le accuse da noi mosse al modus operandi socialista, che si basava sullo stesso sistema clientelare democristiano. A parte i lavori pubblici di cui ancora godiamo, non ci fu traccia di industrializzazione nonostante la Cassa del Mezzogiorno. Il 1970 e i moti di Reggio Calabria decretarono il fallimento di Mancini e della politica governativa in Calabria. Quella crisi, prima della strumentalizzazione dei fascisti, diceva che il Governo non rispondeva alle esigenze della gente».

Non le è mai interessato cosa ci fosse a sinistra del PCI?
«Posso parlare solo della fase in cui dirigevo e avevo una responsabilità. Nell’opera di dirigente quotidiana ho sempre cercato di portare questi gruppi al nostro interno. Talvolta ci sono riuscito senza mai chiedere abiura. Tutto il resto era sbagliato».

Gli extraparlamentari vi chiamavano “fascisti rossi”, le dava fastidio quel termine?
«Non lo sentii spesso. Forse lo coniò Potere Operaio, vale a dire la matrice dell’Autonomia e poi della lotta armata. I modi utilizzati erano sbagliati, il tutto al netto degli eccessi repressivi e investigativi. Ad esempio, io criticai il modo in cui avvenne il blitz di Dalla Chiesa. Il punto era però assecondare o meno una reazione autoritaria dello Stato che giustificasse la risposta armata. Per quanto ci riguarda avremmo cancellato un confronto istituzionale lungo 40 anni e la nostra storia è stata caratterizzata sempre da una lotta finalizzata a maggiore democrazia e libertà».

Cosa le manca della Camera dei Deputati dove tornò tre volte?
«La suggestione del confronto politico nell’aula. Era di altissimo livello: parlavano Moro, Berlinguer, Zaccagnini, Pertini…».

Fece opposizione ai governi Cossiga, Craxi, Spadolini, Forlani, Fanfani e Andreotti. Il Divo Giulio oggi chi voterebbe?
«Voterebbe Forza Italia secondo me, anche se aveva rapporti con un certo tipo di destra romana».

Era a Roma durante gli anni di piombo, l’assassinio Moro, la strage di Bologna e Ustica. Quale fatto di cronaca la segnò particolarmente?
«La morte di Moro, senza dubbio. Si capiva chiaramente che sarebbe cambiata la storia d’Italia. Realizzammo subito che in gioco c’erano equilibri internazionali. Poi c’era questa figura di Moro, drammatica già di suo prima del rapimento delle BR. Alla Camera intravedevo in lui sempre una tristezza di fondo».

Immaginava i figli dei missini al Governo cinquant’anni dopo quei fatti?
«No».

E come è stato possibile per lei?
«Forse, anzi sicuramente, iniziò tutto con la morte di Moro. La crisi dell’Italia cominciò quel giorno sbarrando la fase al compromesso storico e alla prospettiva di una terza fase. L’idea di Moro e Berlinguer era di legittimarsi reciprocamente perché entrambi avevano dato vita alla Repubblica. Quando questa prospettiva fu eliminata, si susseguirono 15 anni di governi incapaci di compiere scelte adeguate alle crisi degli anni ’80 e ’90. Quando il Pci iniziò a scimmiottare la nascitura Lega su questioni di sicurezza e di immigrazione, i dadi erano tratti».

Le piace Elly Schlein? Riempie le piazze e parla di sinistra, ma il PD tritura ogni segretario che smette di rispondere alle logiche delle correnti…
«La Schlein, in termini culturali, di rinnovamento del costume e di nuova mentalità, dovrebbe essere parte fondamentale di un partito di sinistra. Che questa caratterizzazione culturale possa reggere la leadership con l’ambizione di governare, ho però dei dubbi. Servirebbe una leadership più matura rispetto a questa componente che, ribadisco, deve far maturare il resto del partito, ma che potrebbe non avere la forza di diventare maggioranza nel paese. Ha vinto il congresso con la gente, perché i dirigenti non erano credibili. Per certi versi è la riedizione di Renzi, sotto forma e contenuti totalmente differenti».

Il consiglio più recente a chi lo ha dato?
«Non ne ho mai dati, perché non mi sono mai visto in siffatte vesti. Un difetto che mi riconosco è mettermi sempre alla pari con l’interlocutore».

Si arrabbia ancora per la politica?
«Molto».

L’ultima incazzatura che ha preso qual è stata?
«Stamattina, quando ho aperto il giornale».