L’infantile gazzarra tra Università calabresi è la metafora di una Calabria che va al voto all’insegna dell’ognuno per sé, Dio per tutti. Una Calabria con tanti galli nel pollaio che litigano tra loro, dove il pennacchio può significare anche potere, dove il potere asseconda i capricci, dove l’interesse pubblico per una grossa fetta della politica e della pubblica amministrazione è figlio illegittimo del familismo amorale. Una Calabria che non riesce a uscire dalla maledizione che per decenni l’ha condannata alla marginalità: l’impossibilità di pensare in termini di regione, di comunità, di sistema in cui ciascuno sostiene l’altro e insieme si cresce.

Persino ora, con le imprese che rischiano di chiudere per la stangata energetica, con le famiglie terrorizzate dai rincari che non si fermano, con i fondi Pnrr che non si sa come e se saranno utilizzati (vista l’inadeguatezza della nostra macchina amministrativa), con l’ipotesi di un’ulteriore escalation della guerra che si sta combattendo in Ucraina – ripeto: persino ora – la classe dirigente calabrese litiga e non riesce a trovare un punto di sintesi e di unità nell’interesse dei calabresi.

Parlo di classe dirigente perché il problema non è solo della politica, che non è peggiore della società, essendone specchio ed espressione.

Il problema è, ad esempio, del ceto imprenditoriale, che quando c’è la bonaccia munge la mucca, quando iniziano le difficoltà parte con il piagnisteo e, invece di mettersi in campo per contribuire a trovare soluzioni, aspetta che qualcuno intervenga. È vero – giusto per fare una riflessione – che la crisi economica accresce la possibilità che la ‘ndrangheta inquini l’economia, ma questo avviene da anni, in tutta Italia (soprattutto negli insediamenti produttivi del Nord) e nel mondo. Con l’immensa liquidità ottenuta grazie ai traffici mondiali di cocaina, la ‘ndrangheta infiltra le imprese attraverso prestanome e ingenti iniezioni di capitale, le usa per il riciclaggio e per inserirsi con la maschera della rispettabilità nel mercato. Ci sono imprenditori che negli anni hanno ceduto, altri che hanno chiesto ai mafiosi di fare affari con loro, ma ci sono anche imprenditori che hanno detto no e hanno denunciato. Il sistema è in crisi da anni e da anni la ‘ndrangheta si è infiltrata dove ha trovato le porte aperte. Pensare che la crisi attuale possa in qualche modo “giustificare” il cedimento di imprese al collasso agli appetiti mafiosi è offrire inconsapevolmente un alibi a chi, invece di adoperarsi a superare le crisi da imprenditore, preferisce le scorciatoie.

Bisogna pretendere il sostegno dello Stato e degli Enti locali al sistema imprenditoriale e, allo stesso tempo, stare sulla prima linea del fronte di battaglia, facendo i sacrifici così come stanno facendo le famiglie. Inoltre – in quanto classe dirigente – gli imprenditori hanno il dovere di prospettare soluzioni come, ad esempio, gli investimenti sulle fonti energetiche alternative e rinnovabili. Le imprese in Calabria devono fare sistema e sostenersi, altrimenti diventano agnelli isolati che i lupi si mangiano in un boccone.

Ovviamente ci sono gli alibi della politica, che quando viene chiamata in causa punta l’indice su una pubblica amministrazione inadeguata e a volte corrotta, che però è cresciuta negli anni proprio grazie ai padri politici e ai danti causa di chi oggi se ne lamenta. Se la burocrazia è inadeguata bisogna intervenire con determinazione e non – ad esempio – fare finta di nulla perché il funzionario magari non sa scrivere una pratica ma è bravo a gestire pacchetti di voti.

Gli alibi della politica passano poi dall’incertezza della tornata elettorale: quell’assessore sarà certamente eletto, dipende da chi lo sostituirà e quindi oggi non si può intervenire. Oppure le cose potranno cambiare se il sindaco o il presidente saranno rafforzati o indeboliti a seconda di chi fa il tifo per una parte o per l’altra. Tutti galli sui social o sulla stampa, ma poi all’interno delle assemblee elettive non hanno alcuna voglia o capacità di trovare proposte e soluzioni: in campagna elettorale la polemica dà più resa e visibilità.

Infine, anzi all’inizio, ci siamo noi cittadini, che possiamo essere giornalisti o insegnanti, commercianti o artigiani, impiegati del pubblico impiego o del settore privato, e che in mezzo a tutto questo abbiamo spesso la tentazione di mandare tutti a quel paese, di scappare via visto che tanto non cambierà nulla, di astenerci dal voto in segno di rassegnazione o di annullarlo in segno di disprezzo. Il non voto è l’alibi per eccellenza del cittadino, che rinunciando a dire la sua rende forti e coerenti gli alibi dei politici, degli imprenditori, dei boiardi di Stato e dei dirigenti pubblici, dei burocrati che spuntano ferie e permessi, che incassano premi di produttività e qualche volta bustarelle, che bloccano pratiche e procedimenti affogando la Calabria.

Gli alibi sono come i pennacchi dei partiti, degli aeroporti (ricordate cosa è successo con il nome dello scalo di Lamezia a cui aggiungere Catanzaro?), delle Università, dei territori. Esistono se qualcuno decide di portarseli addosso e vanno a cascata, come in un Domino. Se almeno i cittadini interrompessero il gioco, andando a votare in massa, inizieremmo a togliere alla politica la voglia di tirare fuori i propri alibi, costringendola a produrre risultati perché il popolo è presente, controlla e pretende. E via via li toglieremmo anche agli altri. Ma se la gente lascia un vuoto democratico, quel vuoto lo riempiono quelli che con gli alibi si arricchiscono.