Stefano Bonaccini spiega il Pd che vorrebbe ricorrendo ad una efficace metafora: quella del bar. «A volte io stesso ascolto in tv leader nazionali e mi chiedo se qualche volta siano stati in un bar, in un supermercato, in una mensa. Vedo che gli argomenti affrontati non sono quelli di cui discute la gente. Io voglio un Pd di gente che entra nei bar e non solo ascolta le istanze della gente, ma riesce ad offrire risposte. Come fanno quotidianamente migliaia di amministratori». Nella sala, a Lamezia Terme, scoppia un lungo applauso. In prima fila ci sono tutti i segretari provinciali, i consiglieri regionali, il senatore Nicola Irto, la presidente del partito Giusy Iemma e moltissimi quadri intermedi del partito.

Il filo comune è la necessità di cambiare passo. Lo spiega bene il sindaco di Borgia, Elisabetta Sacco, che racconta lo scoramento provato dalla base in questi anni in cui il partito ha dato l'impressione di giocare a perdere. Dopo gli interventi di due giovani imprenditori, Andrea Procopio e Fabio Spadafora, e quello degli studenti universitari Francesco De luca e Antonio Puntillo, è toccato al segretario regionale, Nicola Irto ribadire che il partito, anche in Calabria, è vivo come dimostra la celebrazione dei congressi dopo anni di commissariamento. Di più, ha in testa un'ambizione: quella di mettere da parte le correnti e proporre con forza al partito nazionale la questione del Sud contro il "romanocentrismo" dei partiti che hanno lasciato da parte questo temi.

Per Bonaccini, però, il problema non è solo meridionale ma esiste anche una questione settentrionale con un partito troppo ancorato a Roma. Lo dimostra il fatto che di otto Regioni del Centro-Nord che rappresentano quasi la metà degli italiani, il Pd ne gestisce solo due.

Un problema che richiama quello più urgente dell'effetto nocivo delle correnti. «Io non sono contro le correnti - dice Bonaccini - sono contro quello che sono diventate. Va benissimo avere visioni differenti ma su questo dobbiamo discutere, arrivare ad una sintesi e poi parlare con una voce sola. Non è possibile sposare una tesi solo perché ce lo dice il capocorrente. Io governo da otto anni l'Emilia con una coalizione anche composita ma non c'è mai stato uno straccio di crisi perché il pluralismo è fondamentale, ma altrettanto il rispetto che ci dobbiamo fra di noi».

Il tema però richiama forte la questione di una classe dirigente da rinnovare. «Ho coordinato all'epoca la campagna delle primarie di Renzi, ma il termine rottamazione non l'ho mai usato. Il cambio di classe dirigente non è sostituiamo ma mettere in campo le tante energie che ci sono dal partito a partire dagli amministratori locali che sono quelli che più di tutti capiscono la metafora del bar. D'altronde se vinciamo nel 70% delle amministrative e perdiamo a livello nazionale, qualcuno una domanda deve pur farsela, magari a partire dalla legge elettorale che abbiamo fatto noi, ma in politica gli errori si fanno, l'importante è non perseverare».

Altro tema scottante è quello dell'autonomia differenziata. Già Irto aveva ricordato che il Pd sul punto ha espresso una posizione chiara indipendentemente da come andrà il congresso. «Dieci giorni fa - ha detto Irto -  si è decisa la linea del partito che si può riassumere così: no al Ddl Calderoli; definizione dei Lep; parlamentizzare la questione con una legge quadro; una chiara perequazione infrastrutturale».

Bonaccini ovviamente ha concordato sul punto. Ma il tema che più lo interessa è quello di una sorta di pacificazione interna al Pd. «Andando in giro sto scoprendo un partito in cui i dirigenti fanno ragionamenti del tipo “se viene lui, non vengo io”. Io penso che la dobbiamo smettere, le divisioni interne ci stanno lacerando, ci stanno facendo male. Io da qui voglio salutare la Schlein e la De Micheli e dir loro che non dirò mai una sola parola verso loro che non sia di apprezzamento. Se dovessi vincere, il giorno dopo chiederei ad entrambe di darmi una mano; se dovessi perdere mi metterò a loro disposizione un minuto dopo. Non temo la scomparsa del Pd, temo la sua irrilevanza, l'idea che il Pd non possa più essere il baricentro di un nuovo centrosinistra. La sconfitta del 2018 era meno pesante perché non avevamo forze al centro e a sinistra che competevano con noi. Ai 5 stelle e al Terzo polo intanto dico che dovrebbero fare opposizione al governo, non al Pd. A noi invece dico - ha concluso Bonaccini - che voglio un partito che parli meno degli altri. Se non parliamo di noi vuol dire che non abbiamo nulla da dire su di noi. Ascolto troppi nomi e cognomi, poco sui contenuti. Invece dobbiamo avere una vocazione maggioritaria che non significa autosufficienza ma l'ambizione di andare a conquistare i voti del M5s, del Terzo polo e anche della destra perché in politica si può dire che hai vinto quando convinci a votarti anche chi da quella parte non ha mai guardato». La gente applaude, Bonaccini vellica l'orgoglio e l'appartenenza a un partito che lui stesso vuole popolare e non populista e soprattutto che torni a sorridere.