Il capogruppo regionale non nasconde gli effetti della batosta elettorale ma ostenta ottimismo: «Il Partito democratico ha perso di brutto, ma siamo pronti a ripartire». Al governatore della Calabria rimprovera la mancanza di confronto con le parti sociali e i territori
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Il Pd dopo la sconfitta delle Politiche, seguita a quella delle regionali, prova a riannodare le fila. Mentre a livello nazionale è in atto il dibattito su come rifondare il partito, i livelli locali riprendono l’attività sui territori.
Il Pd calabrese è ripartito dai sindaci, organizzando un confronto con i vertici dell’Anci. Ne abbiamo parlato con il capogruppo in consiglio regionale, Domenico Bevacqua.
Bevacqua, perché questo incontro con l’Anci?
«Perché quest' anno di governo regionale ha cancellato un termine a noi caro: la concertazione. Un tempo, si teorizzava la necessità di una voce costante dei cosiddetti corpi intermedi per testimoniare la buona salute di una democrazia. Se guardiamo all’oggi, il quadro non è dei più confortanti. In Calabria, i corpi intermedi sono semplicemente muti. Continuando così, si certifica la morte della società civile. E questo non è un bene per nessun governo, qualunque esso sia. Pensi ad esempio a due prerogative dei sindaci come l’acqua e i rifiuti. Su questi temi il governo regionale è andato avanti come un treno sulla multiutility senza nemmeno una consultazione dei primi cittadini che sono stati, di fatto, cooptati. Temi così delicati avrebbero meritato ben altro livello di approfondimento».
Magari la concertazione verrà avviata adesso…
«Abbiamo atteso un anno le prove di azione di questo governo regionale; ma abbiamo atteso anche che gli attori territoriali fossero parte attiva del dibattito e non si appiattissero sulle piccole rivendicazioni ed elargizioni del momento. Non intendiamo accusare nessuno, ma ognuno deve fare il proprio dovere. E, tra le altre cose, il nostro è anche quello di stimolarlo e renderlo manifesto questo dibattito. Vogliamo discuterne con tutte le istituzioni e parti sociali calabresi».
Siete sicuri che le parti sociali, i sindacati, siano disposti a ascoltarvi?
«Oggi il Pd può farlo in quanto esprime un gruppo consiliare unito e credibile (con tutti i suoi limiti e debolezze) e un partito regionale, a partire dal segretario Nicola Irto, altrettanto forte e autorevole. In conclusione ma, certamente non per ultimo, vorremmo che anche la stampa fosse partecipe e parte attiva di questa discussione, smettendola di essere troppo timida verso governatore e maggioranza di turno».
Bè, ma anche voi del Pd non mi pare che abbiate tutto questo consenso…
«Abbiamo perso. E abbiamo perso male. La sconfitta è chiara e netta, non si può certo nascondere. Ma, ciò che mi preme sottolineare è che, prima ancora di una sconfitta elettorale, si tratta di sconfitta politica».
In che senso?
«Mi spiego meglio. Nel mio piccolo, avevo messo in guardia il partito in occasione dell’incontro tenutosi a Cortona ai primi di luglio dello scorso anno, senza mai pensare che da lì a poco si sarebbe aperta la crisi di governo. Intervenendo a quella riunione nazionale di Areadem, avevo lanciato con chiarezza alcuni allarmi ben precisi: innanzi tutto, avevo affermato la necessità di non sopravvalutare i risultati del recente voto amministrativo e di non cullarsi in inesistenti automatismi con il voto politico; avevo altresì denunciato il rischio che il PD correva di essere percepito soltanto come il partito dei diritti civili e non anche dei diritti sociali, così come avevo sottolineato con nettezza il rischio di un tracollo del PD al Sud. Purtroppo, sono stato facile profeta. Anche perché, a differenza delle destre che, dopo essere state diversamente divise per l’intera legislatura, si sono riunite in un giorno, il possibile “campo largo”, che pure aveva governato insieme per quasi quattro anni, si è dissolto e si è presentato in ordine sparso. Oltre ad avere colpevolmente mantenuto il meccanismo del Rosatellum, abbiamo commesso ancor prima l’errore di non legare la riduzione dei parlamentari al varo di una nuova legge elettorale: abbiamo così consegnato il governo del Paese ad una maggioranza che nel Paese non è tale. In una parola abbiamo determinato il nostro suicidio politico».
Ora avete questo congresso, si preannuncia una discussione di quattro mesi e mezzo. Secondo lei la gente si appassionerà?
«Credo che continui a persistere una incomprensione di fondo su quel che è accaduto e su quel che potrebbe accadere: appellarsi a cavilli statutari per arrivare a primavera, vuol dire vivere fuori dal tempo. Certe liturgie e certe lentezze non hanno più ragion d’essere. Mi auguro, almeno, che il percorso stabilito dalla direzione di venerdì scorso non subisca ulteriori ritardi».
Al di là dei ritardi mi pare evidente ci sia un problema di classe dirigente. Avete confermato i capigruppo di Camera e Senato, i nomi per i futuri segretari sono sempre gli stessi, da dove dovrebbe partire questo cambiamento?
«Lei ha ragione. A impartire lezioni, però, non possono essere coloro che approfittando delle fragilità attuali rivendicano una verginità francamente, sconosciuta. Un gruppo dirigente che ha perso e che é in prima fila da anni deve farsi certamente da parte ma, a sbracciarsi per sostituirlo, non può essere chi si professa nuovo senza mai esserlo stato; chi si professa libero da correnti, quando invece la sua carriera è frutto soltanto della dipendenza da correnti. La credibilità e l’autorevolezza si dimostrano allorché si è chiamati ad esercitare responsabilità ad ogni livello. E non mi pare che molti non abbiano brillato quando sono stati chiamati a svolgere ruoli di responsabilità sui territori».
Oltre gli uomini c’è anche un problema di idee…
«Vero. Credo fermamente che al partito non basterà ritrovare l’identità: quella è parte del nostro DNA. Noi siamo convintamente riformisti e progressisti e non sarà sufficiente ribadirlo. La scena politica degli ultimi decenni ci ha ampiamente dimostrato la necessità che la piattaforma programmatica sia incarnata da una leadership forte, comunicativa e convincente. Gli elettori hanno smesso di identificarsi con un partito: i voti si spostano a milioni in pochi mesi e lo fanno in ragione dei singoli temi di volta in volta proposti, di chi li propone e di come li propone. E, in questo contesto, stavolta il PD può e deve ripartire dal Sud: quel Sud che, da troppi anni, il gruppo dirigente nazionale ha lasciato a sé stesso e in disparte, preferendo porre in primo piano solo una certa parte del partito proveniente solo da una certa parte del Paese. Come PD calabrese su questo non molleremo di una virgola, avendo finalmente un segretario regionale eletto ponendo fine ad una fase di commissariamento che aveva reso il partito regionale fragile e appaltato a logiche nazionali».
Bene e allora ad un anno di questo governo regionale, lei che giudizi dà?
«Mi lasci dire che, fin dal primo giorno dell’attuale consiliatura, abbiamo sempre manifestato la nostra responsabilità istituzionale attraverso un’opposizione propositiva e disposta a contribuire fattivamente alla difficile soluzione dei problemi che affliggono la nostra Regione. Il punto è che questo governo regionale ha rifiutato ogni reale confronto, facendo prevalere l'improvvisazione con la produzione di provvedimenti normativi bisognosi di ripetute e ravvicinate manutenzioni, modifiche, integrazioni. Certo, riconosco al Presidente Occhiuto una voglia di fare e la determinazione nell’affrontare gli atavici problemi della nostra terra: il punto è che così non può fare bene. Con gli annunci non si va lontano e l’annuncite è una malattia produttrice di leggi frettolose che rischiano di arrecare seri danni e accumulare nuovi debiti, laddove si dovrebbero evitare gli uni e gli altri. È così che la multiutility sull’idrico, con annesso assorbimento Sorical, si è finora dimostrata una vuota scatola di parole; peraltro, oggetto di pesanti censure anche da parte della Corte dei Conti. Lo stesso si può dire per Azienda Zero e per la Sanità: il commissariamento deve cessare. Possiamo anche comprendere la necessità di richiedere una proroga di sei mesi ma sono gli atti cui assistiamo che ci preoccupano. Semplicemente perché paiono decisamente contrari al rafforzamento di una sanità pubblica e universale. E, per carità di patria, taccio sulla tragicomica vicenda dei medici cubani».
E il nuovo governo nazionale la preoccupa?
«È espressione del voto degli italiani e quindi non mi preoccupa. Ci sono alcune cose però che meritano particolare attenzione. Penso all’autonomia differenziata».
Quella la preoccupa?
«Sull’autonomia si rischia davvero di cancellare l’unità del Paese. Lo diciamo da anni e tutti gli studi più seri lo attestano senza possibilità di dubbio: prima di ogni ulteriore riforma, bisogna applicare la Costituzione e la normativa vigente; a cominciare dall’art. 119 nella sua interezza e dalla L. 42 del 2009. Non si può varare nessuna autonomia senza preliminarmente fissare i Livelli Essenziali delle prestazioni per tutto il territorio nazionale; istituire e regolare il Fondo perequativo; garantire la perequazione infrastrutturale; cancellare il criterio di ripartizione delle risorse legato alla spesa storica. E poi c’è il discorso del Ponte che è legato a tutto questo più di quanto non appaia: stanno provando a venderci un fumoso sogno, senza prima garantire che verranno completate opere strategiche quali la 106 e l'Alta Velocità, e garantiti i diritti sociali e sanitari. Nell'attuale congiuntura economica e internazionale le risorse sono scarse e limitate: non possiamo inseguire fantasmi che, quand’anche vedessero una realizzazione, lo farebbero a scapito di tutto il resto. Oppure ci potremo accontentare di fare una bella foto a un ponte che dietro di sé ha solo il deserto».