Il punto di vista originale dell'economista e autore de La Secessione dei ricchi: «La Calderoli è del tutto inefficace giuridicamente. Il referendum per contrastarla è un bene: ha riunito l'opposizione e il governo dovrà fare i conti con il risultato...»
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Gianfranco Viesti è economista e docente dell’università di Bari. Da anni si interessa di regionalismo e politiche di sviluppo con particolare riferimento al Mezzogiorno d’Italia. Negli ultimi tempi si è molto occupato del tema dell’autonomia differenziata con una serie di articoli, saggi e interviste e soprattutto con la sua ultima pubblicazione “La secessione dei ricchi”, recentemente edito da Laterza.
Professore, partiamo dal titolo del suo libro. Perché parla di secessione e perché dei ricchi?
«Sostanzialmente per due motivi. Il primo perché le materie sulle quali le regioni possono chiedere autonomia sono talmente estese al punto da configurare non una semplice questione di mere competenze amministrative regionali o di piccole differenziazioni ma tali da configurarle come delle vere e proprie Regioni-Stato all'interno dell'Italia: non si tratterebbe ovviamente di un processo secessionista in senso formale – con la creazione di una nuova nazione – ma di un processo secessionista in senso sostanziale perché, all'interno dell'Italia, si creerebbero delle Regioni con estesissimi poteri legislativi e amministrativi del tutto simili a quelli di uno Stato nazionale. Avremmo quindi delle vere e proprie Regioni-Stato. Dei ricchi per il banale motivo che questa spinta parte dalle regioni più “forti” del Paese come Lombardia e Veneto che vorrebbero far venire meno il principio dell'unitarietà di trattamento di tutti i cittadini. L’idea di fondo è che, se una Regione è più ricca, i suoi cittadini hanno diritto a maggiori servizi rispetto a una Regione più povera e, quindi, anche da questo punto di vista è una “secessione dei ricchi”».
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Un ragionamento questo che può “sedurre” gli abitanti di quelle regioni. Come convincere allora i residenti del Nord a firmare il referendum?
«Non credo ve ne sia bisogno come dimostra il fatto che in otto giorni dal “lancio” della petizione sul referendum abrogativo si sono già raggiunte le 500mila firme. Questo significa che si raggiungerà di slancio il numero necessario per indire il referendum. Ma tutto ciò significa anche un’altra cosa. Anche nei cittadini del Nord c’è la percezione che questo processo non è una questione che riguarda solo il Sud, ma è pericoloso per l’intero Paese che diventerebbe uno Stato Arlecchino, incapace di mettere in campo politiche unitarie su campi fondamentali come quello scolastico o sanitario. L'Italia diventerebbe un paese molto più complicato, molto più frammentato, nel quale le politiche pubbliche sarebbero diverse da area ad area; diventerebbe un paese meno efficiente e meno in grado di crescere».
Anche così non vedo perché i cittadini delle regioni più ricche dovrebbero aver paura dell’autonomia…
«Perché qui c’è un altro problema che è legato alla nostra legge elettorale per il rinnovo dei consigli regionali che fa dei presidenti della giunta dei piccoli “Re” che per cinque anni hanno pieni poteri. Se questi poteri vengono aumentati a dismisura può essere pericoloso anche per i cittadini di quelle regioni che hanno sempre meno poteri di controllo e con le opposizioni che hanno agibilità ridotta dalla legge elettorale. Non a caso è passata la definizione di “Governatori” per i presidenti di giunta regionale».
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Ma secondo lei come verranno esercitati questi poteri in senso protezionista, del tipo, per fare un esempio astratto, chi non risiede in Veneto da almeno dieci anni non può insegnare nelle scuole venete, o in senso contrario del tipo daremo incentivi a chi viene ad insegnare al Nord?
«Questo è uno degli aspetti più interessanti e al tempo stesso inquietanti della riforma, perché i presidenti che spingono verso l’autonomia non hanno mai detto cosa vogliono fare di questi poteri, da anni si limitano a dire dateci pieni poteri... ma per fare cosa? Per quello che le dicevo prima questo è un aspetto pericoloso. Dei contenuti di queste intese, tanto da un punto di vista normativo quanto da un punto di vista finanziario, non sappiamo niente. Tra l'altro, queste intese potrebbero stabilire tranquillamente delle norme in contrasto con quelle della legge approvata dal Parlamento perché, trattandosi di una legge ordinaria, potrà essere superata dalla legge che ratifica le intese».
Allora non resta che sperare nel referendum abrogativo.
«Guardi che questo è un aspetto giuridicamente irrilevante».
In che senso, scusi?
«È importante comprendere che la legge 86/2024, la famosa Calderoli, è totalmente inefficace giuridicamente, non serve a concedere i famosi pieni poteri alle Regioni. Le Regioni potrebbero chiedere autonomia anche in assenza di questa legge sulla base della riforma effettuata nel 2019 con la modifica dell’articolo 116 della Costituzione».
Mi sta dicendo che tutto questo baillame sul referendum non serve a nulla?
«Assolutamente no, è evidente che ha avuto il merito di accendere i riflettori sul problema. Una questione così tecnica è finita sui tg, sui giornali mentre nel 2019 è stata fatta passare quasi sotto silenzio. La vicenda poi ha avuto il merito di aver svegliato sul tema anche le forze di opposizione come il M5s e il Pd. Non dimentichiamoci che una forte spinta all’autonomia è venuta nel 2017-2018 dalla Regione Emilia-Romagna (governata dal Pd), che si è affiancata alle Regioni Veneto e Lombardia. Ciò a dimostrazione del fatto che alcuni concetti, teoricamente propri della Lega e della sua idea primordiale di federalismo, avevano fatto breccia in maniera trasversale anche in altri partiti, come appunto segmenti del Pd delle regioni del Nord. L’esito del referendum poi avrà un segnale politico forte con cui il Governo inevitabilmente dovrà fare i conti. E non sarà facile».
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Perché?
«Perché l’autonomia è figlia di un accordo politico interno al centrodestra, il famoso scambio col premierato e la riforma della giustizia. Ma c’è dell’altro. Il Parlamento si è tagliato fuori dalla discussione di merito con le singole Regioni perché il potere di contrattare con esse è in capo al governo e alla presidenza del Consiglio. Ai parlamentari resta solo un vago atto di indirizzo. Ora si passa alla fase più importante, quella di capire quali poteri e quali risorse economiche l'attuale maggioranza sarebbe intenzionata a concedere. C’è però da considerare che nelle materie non Lep le regioni possono già da subito, e si stanno già attrezzando in questo senso, chiedere l’autonomia».
A questo proposito che ne pensa della moratoria chiesta dal presidente della Calabria Roberto Occhiuto?
«Guardi Zaia e Fontana si sono subito precipitati a chiedere pieni poteri in queste materie seguite subito dopo da Cirio, presidente forzista del Piemonte. Questo mi porta a due riflessioni. La prima: non ci sono molte affinità fra Veneto, Lombardia e Piemonte. Questo dimostra allora che il problema sta tutto non in una migliore organizzazione dello macchina pubblica, ma nella volontà di avere più poteri. La seconda è che alcune componenti della maggioranza, Forza Italia in primis, stanno iniziando a capire la pericolosità di questo gioco. Sono contento che ci sia questa diversificazione di posizioni perchè consente di alimentare il dibattito e far comprendere ancora di più agli italiani, al di là delle appartenenze politiche, di cosa stiamo realmente discutendo. Sul piano politico mi verrebbe da dire che Fi e Fdi stanno iniziando a capire come questo regalo alla Lega sia particolarmente costoso in termini di consenso».