Ibrahim Diabate e Nino Quaranta erano a Rosarno nei giorni della rivolta degli africani e, a 10 anni dai quei fatti che suscitarono indignazione in tutto il mondo, i loro ricordi sono legati da un unico filo: mai più violenza.

Loro raccontano “la rabbia e la paura” in quei cinque giorni di scontri alle porte di un’Europa che così faceva i conti per la prima volta col dato di un esodo epocale con una integrazione difettosa che aveva creato sfruttamento e violenza.

«Violenza su entrambi i fronti partita dalle continue vessazioni subite dai braccianti – ricorda Quaranta – ma quella compiuta fu anche una caccia al nero che si doveva evitare».    

Tornare a Rosarno significa vedere che i due luoghi disumani da cui partì la rivolta non ospitano più i migranti. Rasa al suolo l’ex Rognetta, oggi l’area è un centro sportivo che – come se il paese non riuscisse a rimarginare per intero le ferite – sorge a pochi metri dalle palazzine costruite per i migranti. Trenta alloggi finiti e mai assegnati, inutili, come la foresteria costruita e mai aperta in un bene confiscato.

Il senegalese Diabate denuncia che «gli africani abitano ancora nei ghetti, hanno difficoltà a trovare una casa», come se nulla fosse cambiato dopo 10  perché la risposta abitativa dello Stato si è fermata alla tendopoli e al campo container.

Italiani e africani si parlano di più, ma i braccianti si vedono armeggiare gli stessi strumenti precari di sempre: fanno la scorta di acqua con i bidoni, usano insicure biciclette per spostarsi anche di notte «e – prosegue Quaranta – cercano lavoro nero ancora ai crocicchi delle strade, anzi oggi più di ieri».   

La violenza è sopita ma l’affronto di una emergenza umanitaria che le istituzioni non risolvono, rimane.