Il Governo ha sempre saputo che quella presentata è una riforma che sarà approvata a colpi di maggioranza (assoluta) tanto che ha già fatto intendere che si dovrà andare a referendum
Tutti gli articoli di Opinioni
PHOTO
Durante una intervista rilasciata nel corso del Festival dell’economia a Trento (era lo scorso 24 maggio), la presidente del Consiglio Giorgia Meloni trattando della riforma costituzionale sul c.d. ‘Premierato’ - e sfidando la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein, come se si stesse già in una campagna referendaria - ha perentoriamente affermato che «O la va, o la spacca. Nessuno mi chieda di salvare la sedia o di restare qui a sopravvivere». Verrebbe da fare più di un commento, ma ci limitiamo a due osservazioni: la prima è che la Costituzione non può essere oggetto di così aspra contesa politica personalizzata (alla Renzi, per intendersi); la seconda è che a spaccarsi, se dovesse andare in porto la riforma, sarà la Costituzione stessa. Innanzitutto, ricordiamo al lettore che per cambiare il testo costituzionale è richiesto che le leggi di revisione della Costituzione siano adottate da ciascuna Camera con due successive deliberazioni a intervallo non minore di tre mesi l’una dall’altra; mentre nella prima doppia deliberazione (Senato e poi Camera) è richiesta la sola maggioranza dei presenti, nella seconda doppia deliberazione (ancora una volta al Senato e poi alla Camera sempre sul medesimo testo) è richiesta (almeno) la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera.
Nella seconda doppia votazione possono verificarsi due ipotesi: la prima con approvazione del testo a maggioranza assoluta, la seconda con una maggioranza più elevata (i 2/3). Nel caso si raggiunga la maggioranza assoluta, è previsto un termine di tre mesi entro il quale un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali possono (non devono, quindi) chiedere il referendum costituzionale. Nella seconda ipotesi, quella di una maggioranza dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera, il ricorso al referendum costituzionale non può essere richiesto in quanto nel luogo della rappresentanza democratica (per l’appunto le Camere) la sovranità si è espressa in modo tanto ampio da ricomprendere la quasi totalità del corpo elettorale. In tema di premierato elettivo vediamo, allora, a che punto siamo.
L’allarme | Premierato, la riforma Meloni apre le porte a una democrazia dimezzata: le ragioni dei costituzionalisti
Con la presentazione alle Camere del ddl costituzionale A.S. 935 (Modifiche agli articoli 59, 88, 92 e 94 della Costituzione per l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri, il rafforzamento della stabilità del Governo e l’abolizione della nomina dei senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica), da parte del Presidente del Consiglio dei ministri (Meloni) e del Ministro per le riforme istituzionali e la semplificazione normativa (Casellati), lo scorso 15 novembre 2023 è stato avviato il percorso parlamentare per un nuovo (ennesimo) tentativo di riforma della Parte II della Costituzione. Il 18 giugno, il suo cammino ha conosciuto un importante ‘traguardo’ con la prima approvazione in Senato con 109 voti favorevoli, 77 voti contrari e 1 astenuto.
Mentre si scrive, si è consci di quanto l’iter di riforma costituzionale sia ancora lungo e tortuoso, anche perché continuamente sottoposto non già a una ampia convergenza delle forze parlamentari ma a "logiche di scambio" per l’attuazione del regionalismo differenziato e ora anche per un’altra riforma costituzionale, quella sulla magistratura ordinaria. Data tale situazione politica, le annotazioni che seguono vogliono offrire spunti di riflessione critica a partire dal titolo del disegno di legge costituzionale (ddl), perché questo ci fa intendere come chi lo ha proposto abbia voluto escludere (o comunque non cercare) la strada di una riforma condivisa, proiettandosi già da subito verso il referendum ‘costituzionale’.
Spieghiamone il motivo. Come accaduto per la riduzione del numero dei parlamentari durante la scorsa Legislatura, nel titolo del ddl sul premierato presentato al Senato - questa volta scritto direttamente dal Governo -, agli articoli oggetto di proposta di modifica si accompagna l’indicazione solo parziale e direi demagogica dei contenuti degli stessi. Nulla si dice, per esempio, a proposito di altri contenuti della riforma, come gli atti presidenziali che non richiederebbero più la controfirma ministeriale o la deroga al semestre bianco, e in un caso (il rafforzamento della stabilità del Governo) il riassunto è palesemente ingenuo se non proprio ingannevole, perché propone un fine, non una riforma, un assunto indimostrato. Il Governo ha proposto quel titolo in quanto intenzionato a caratterizzare con esso una riforma che necessiterà prima della maggioranza assoluta (assunta l’impossibilità di raggiungere quella dei 2/3) e poi del referendum. Il Governo ben sa che il titolo della riforma costituisce il titolo dell’eventuale quesito referendario, quindi ha già proposto un quesito suadente: come si potrà votare contro una riforma che offre il rafforzamento della stabilità del Governo?
Disco verde | Via libera del Senato al ddl sul premierato: primo sì all’elezione diretta del presidente del Consiglio
Infatti, il Governo ha sempre saputo che quella presentata è una riforma che sarà approvata a colpi di maggioranza (assoluta) tanto che ha già fatto intendere che si dovrà andare a referendum. E infatti, già all’indomani dell’approvazione del ddl in Consiglio dei ministri si è avuto premura di chiarire alla stampa che sarà certamente richiesto il referendum "confermativo". Qual è allora il problema? Non si riforma la Costituzione puntando (da parte degli stessi riformatori) sul referendum; quando ciò avviene si assiste a una chiara torsione politica dell’istituto referendario. Quindi, dietro il richiamo al referendum "confermativo" c’è la ricerca di una legittimazione popolare per una riforma che fin dalla sua presentazione non cerca alcun compromesso parlamentare per il raggiungimento dei 2/3 ma si limita a portarsi avanti a colpi di maggioranza.
Il lettore deve sapere che il testo costituzionale non attribuisce alcuna aggettivazione al referendum costituzionale. Anzi, volendone individuare una che meglio ne rispecchi la natura, questa non potrebbe che essere quella di "oppositivo". E infatti, il referendum costituzionale non richiede alcun quorum di partecipazione; se questo fosse previsto vorrebbe dire che le minoranze che si oppongono a quanto deciso in Parlamento dovrebbero trasformarsi in maggioranza, col che si chiederebbe troppo a chi già tenta di opporsi a un progetto che ha ottenuto la maggioranza dei voti nei luoghi della rappresentanza parlamentare. E ancora, la richiesta del referendum da parte della stessa maggioranza svilirebbe in modo assai rilevante lo stesso potere di revisione costituzionale così come prescritto dall’articolo 138 della Costituzione che, invece, ritiene possibile la contrapposizione referendaria ‘oppositiva’ alla volontà (già) espressa dal Parlamento. Già dal titolo della Riforma, quindi, ciò che si cerca è una legittimazione diretta del Capo e la divisione politica tra un "noi" e un "loro" che ben si sposa con l’istituto referendario. La Costituzione invece, dovrebbero saperlo, non si impone ma si compone.
*costituzionalista, DESF-UniCal