C’è un vizio antico nel cuore della politica occidentale, un veleno che corrode la carne stessa delle democrazie, facendole marcire dall’interno. Il vizio del potere che si fa ipocrisia, della violenza che si maschera da ordine, della brutalità che si nobilita con la retorica della pace. E così, nel teatrino delle cancellerie, mentre si firmavano accordi e si proclamavano cessate il fuoco, la realtà scorreva nelle strade di Gaza, tra le macerie e il sangue, come un fiume in piena.

La proposta di Donald Trump, quella di “ripulire” Gaza, di svuotarla dei suoi abitanti per farne un eden balneare a uso e consumo del neocolonialismo sionista, non è solo l’ennesima aberrazione di un presidente che ha fatto della brutalità verbale la sua bandiera. È il sintomo di un male più profondo, di un disegno che gli Stati Uniti e i loro alleati portano avanti con meticolosa costanza: quello di garantire a Israele e a Netanyahu una totale impunità, un dominio assoluto sulla regione, un’espansione continua a spese di un popolo ridotto a una comunità di esuli sulla propria terra.

C’è un’immagine che torna alla mente con violenza, quella dei palestinesi che tornano nel Nord della Striscia, dopo mesi di bombardamenti, di fughe, di sterminio sistematico. Sono uomini e donne che rientrano nelle loro case distrutte, nei quartieri ridotti in cenere, tra le strade spettrali della loro città. Sono loro, i sopravvissuti, i fantasmi di una guerra che non si è mai fermata. Perché il conflitto israeliano-palestinese non è fatto solo di battaglie, di missili e di rappresaglie, ma è un processo ininterrotto di cancellazione e riscrittura della storia.

Già nel 1967, dopo la Guerra dei Sei Giorni, il poeta palestinese Mahmoud Darwish scriveva: «Sei la mia prigione e sono la tua prigione. O libertà mia, dove sei?» Oggi quella prigione si chiama Gaza, un’enclave senza scampo, un luogo dove chi resta muore e chi fugge si dissolve in un esilio senza fine. Non è solo un conflitto militare, non è solo un’occupazione, è un lento strangolamento, e l’Occidente, con la sua ostentata neutralità, stringe il cappio.

Senza negare il ruolo e le responsabilità le di Hamas, nello scorrere silenzioso del tempo il Potere ha continuato la sua opera, raffinando i suoi strumenti. Anche se Hamas non è dominate nella West bank dove le forze israeliane hanno ucciso più di 900 palestinesi (190 bambini), e neanche a Gerusalemme dove le stesse hanno assassinato brutalmente 402 palestinesi. Non più solo i carri armati, non più solo l’occupazione militare, ma anche la narrazione distorta, il revisionismo storico, la costruzione di una realtà alternativa in cui i palestinesi diventano gli aggressori, gli invasori, i nemici della pace.

Non c’è da stupirsi se l’Egitto e la Giordania, pur con le loro proteste di facciata, si sono rivelati alleati silenziosi di questa strategia. In fondo, i governi arabi non hanno mai realmente agito per la Palestina, se non quando la causa è diventata strumento di consenso o leva geopolitica. Al-Sisi si è piegato a Tel Aviv come già fecero i suoi predecessori, mentre Amman gioca la partita del doppio volto: solidale nelle piazze, accondiscendente nei palazzi.

E così, mentre la macchina della propaganda internazionale condanna giustamente e con fermezza i crimini del passato – il nazismo, l’Olocausto, il fascismo – tace con imbarazzante discrezione sui crimini del presente. Giorgia Meloni, nel suo tentativo di legittimarsi come leader di un’Italia moderna, ripulita e rispettabile, ha pronunciato parole di condanna contro il nazifascismo. Ma le sue parole, più che una presa di coscienza, suonano come l’atto dovuto di un servo che risponde al richiamo del padrone.

Perché se c’è una cosa che la storia ci insegna, è che il potere non si redime, ma si trasforma. Non c’è conversione sulla via di Damasco, ma solo la necessità di adattarsi a un nuovo ordine. E in questo nuovo ordine, il colonialismo cambia volto, si fa umanitario, si veste di buone intenzioni. Ma la sostanza resta immutata: la Palestina continua a sanguinare, e il mondo continua a guardare altrove. Lo storico israeliano Ilan Pappé, nel suo lavoro di ricerca sulla storia della Palestina, ha scritto: «L’occupazione della Palestina non è stata una semplice guerra, ma un progetto di ingegneria sociale basato sull’espulsione, la distruzione e la riscrittura della memoria. Non si tratta solo di sconfiggere un nemico, ma di cancellarne l’esistenza».

E noi sappiamo, che questa non è una guerra, ma un annientamento. Sappiamo che le parole di Trump non sono follia isolata, ma parte di un disegno più grande. Sappiamo che il colonialismo non è mai morto, ma ha solo cambiato forma. Ma sapere non basta, bisogna dirlo, scriverlo e raccontarlo. Perché il potere si nutre del silenzio, e Gaza, oggi, è il silenzio del mondo.