«Un popolo che non sa leggere, che non sa scrivere, che non sa comprendere è un popolo facile da ingannare e facile da governare». Questa riflessione, di Antonio Gramsci, risuona oggi più vera che mai. L’indagine Ocse sulle competenze degli adulti italiani è un monito che non possiamo ignorare.

Il 35% degli adulti rientra nella categoria degli “analfabeti funzionali”. Sanno leggere, ma non comprendono; sanno scrivere, ma non comunicano; sanno calcolare, ma non ragionano.

Non si tratta di una semplice statistica, ma di una radiografia impietosa della nostra società. Questi dati rivelano non solo un fallimento educativo, ma un impoverimento culturale che ci rende incapaci di elaborare il mondo, di interpretarci come comunità e di immaginare un futuro.

Il 35% degli italiani non supera il livello 1 in literacy, ovvero la capacità di comprendere testi complessi. È il trionfo della superficie, frasi semplici, informazioni essenziali, ma nessuna capacità di analisi. Anche in numeracy, un altro 35% non riesce a gestire operazioni con più passaggi. La matematica, che per Pitagora e Platone era la lingua della verità, è ridotta a un esercizio sterile e incomprensibile.

La situazione diventa ancora più grave nel problem solving adattivo, il 46% degli italiani non sa affrontare problemi complessi o dinamici. In un mondo che cambia continuamente, questa incapacità di adattarsi ci condanna a una rigidità mortale, a un’incapacità di reinventarci. Siamo fermi, bloccati, incapaci di affrontare il nuovo.

E qui risuona la lezione di Italo Calvino: «Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto». Noi, invece, non planiamo più, ci trasciniamo, appesantiti da un pensiero che non sa elevarsi.

Questa condizione non nasce dal nulla, ma è piuttosto il risultato di decenni di smantellamento della cultura come progetto collettivo. Pasolini, già negli anni ’70, denunciava il pericolo di una “mutazione antropologica”, l’omologazione consumistica, l’impoverimento spirituale e l’incapacità di distinguere il vero dal falso. Oggi vediamo il compiersi di quella profezia.

Viviamo in un Paese dove l’istruzione è stata trattata come un costo superfluo, non come un fondamentale investimento; dove la televisione ha sostituito il dialogo; dove i social network hanno trasformato ogni dibattito in un’arena di insulti.

La tragedia dell’analfabetismo funzionale non colpisce tutto il Paese allo stesso modo. Il divario tra Nord e Sud si conferma, come sempre, drammatico. Al Sud, i risultati sono significativamente inferiori alla media nazionale, riflettendo una marginalizzazione che è economica, sociale e culturale. È il perpetuarsi di una disuguaglianza che divide l’Italia in due, condannando intere generazioni a un’esistenza di arretratezza e isolamento.

E qui risuonano le parole di Giovanni Verga, il Sud italiano è ancora quel “mondo dei vinti”, abbandonato a sé stesso, mentre il progresso scorre altrove. Ma il dramma è che oggi, anche nella parte più "fortunata d'Italia", nel Nord più avanzato, si assiste al declino del pensiero critico e della capacità di comprensione.

Dopo aver letto alcuni commenti sul mio articolo "Il rapimento di una neonata a Cosenza e la tragedia greca della modernità", non ho potuto fare a meno di notare che a questo quadro già desolante si aggiunge un altro elemento: l’analfabetismo emotivo. Non è solo che non sappiamo più leggere o scrivere, ma non sappiamo neanche più ascoltare. Non sappiamo più sentire, viviamo in una società che consuma tutto – il cibo, le notizie, le emozioni – senza mai fermarsi a riflettere.

Hannah Arendt ci ricorda che «il pensiero inizia quando siamo disposti a fermarci, a sospendere il giudizio, a considerare ciò che accade». Ma oggi non ci fermiamo più, leggiamo senza capire, reagiamo senza riflettere, giudichiamo senza ascoltare.

Cosa possiamo fare? La risposta non è semplice, ma un punto di partenza è chiaro, dobbiamo tornare a vedere la cultura come un esercizio di libertà, non come un bene di consumo. La cultura deve tornare a essere confronto, conflitto e dubbio. Deve insegnarci non solo a leggere, ma a interpretare; non solo a sapere, ma a capire; non solo a pensare, ma a mettere in discussione ciò che pensiamo.

Come scriveva Dante: «Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza». Siamo ancora capaci di seguire questa strada? O ci siamo rassegnati a un’esistenza in cui il pensiero è ridotto a un riflesso automatico, in cui la vita è vissuta senza essere compresa?

L’indagine Ocse non ci dice solo che siamo un Paese arretrato, ci dice che siamo un Paese che rischia di perdere sé stesso. Ma forse non è troppo tardi se accettiamo questa realtà come un invito all’azione, se torniamo a vedere la cultura come un atto di resistenza, allora possiamo ancora sperare.

Ma per farlo, dobbiamo cambiare. Dobbiamo tornare a pensare, a leggere, ad ascoltare. Dobbiamo trasformare la cultura in un atto di rivolta contro l’ignoranza e la superficialità. Solo così potremo uscire da questa tragedia e riconquistare ciò che abbiamo perso, la capacità di imparare dal passato e saper leggere il presente per riuscire ad immaginare il futuro.