Difendere l’autonomia della magistratura significa difendere noi stessi. E una giustizia libera è l’unica garanzia di una società libera
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"La riforma costituzionale in fieri è un dovere assunto verso gli elettori".
Con queste parole, il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha aperto il suo discorso all’inaugurazione del nuovo anno giudiziario in Cassazione. Ma dietro la formula istituzionale si cela una questione ben più profonda, che riguarda il cuore stesso della nostra democrazia: il rapporto tra politica e magistratura. Un rapporto che, negli ultimi decenni, ha subito un progressivo disfacimento, non solo sul piano istituzionale, ma soprattutto su quello culturale e morale.
La riforma proposta da Nordio rappresenta il culmine di questa tensione, una parabola iniziata con i piani teorizzati dalla loggia massonica P2, passata per i governi Berlusconi e culminata nell’attuale esecutivo, con il tacito consenso di Matteo Renzi. Non si tratta più di un semplice progetto tecnico: è una dichiarazione ideologica che cela un’idea precisa di società, di Stato e di potere.
Nel 1954, Piero Calamandrei scriveva che "l’indipendenza della magistratura è il termometro della democrazia". Se questa affermazione è vera, oggi il termometro segna febbre alta, una condizione pericolosa che minaccia di travolgere il già fragile equilibrio democratico del nostro Paese. L’idea di separare le carriere tra giudici e pubblici ministeri, presentata come una soluzione tecnica, è in realtà un progetto di smantellamento dell’unità della giurisdizione.
Non è solo una questione giuridica: è una questione di potere, di controllo, di libertà. Michel Foucault ci ha insegnato che il potere opera attraverso dispositivi invisibili, strumenti apparentemente neutri che, in realtà, rimodellano i rapporti di forza nella società. La riforma Nordio rientra in questa logica: separare le carriere significa creare due magistrature distinte, due corpi isolati e, di conseguenza, più vulnerabili e manipolabili. È la vecchia strategia del "divide et impera", adattata al campo giudiziario.
La figura del Pubblico Ministero, che dovrebbe essere un organo autonomo e imparziale, rischia di essere troppo vicino al potere politico. Questo scenario non è una semplice speculazione, in molti Paesi europei, il Pubblico Ministero è subordinato all’esecutivo, con effetti devastanti sull’equilibrio democratico. In Italia, invece, si è scelta una strada diversa, quella dell’indipendenza e dell’unità della giurisdizione. È un percorso difficile, certo, ma è anche l’unico che possa garantire una vera tutela dei diritti.
Tuttavia, la riforma Nordio non è solo un attacco giuridico: è il sintomo di una crisi culturale più ampia. Walter Benjamin parlava di una "modernità incompiuta", di un’epoca in cui i vecchi miti sopravvivono sotto nuove forme. In Italia, questo si traduce in un’ossessione per il controllo, per la gerarchia, per la punizione. La magistratura, con la sua autonomia, è percepita come una minaccia all’ordine costituito, quando in realtà è proprio questa "anomalia" a costituire il cuore pulsante della democrazia: la capacità di opporsi al potere, di dire "no" alla sua arroganza.
Se questa riforma dovesse essere approvata, rischiamo di precipitare in un futuro distopico, dove la giustizia si riduce a un mero ingranaggio burocratico. Franz Kafka, nel suo capolavoro Il Processo, ha immaginato un sistema giudiziario opaco, incomprensibile e disumano. Non possiamo permettere che questa visione diventi realtà.
Ma la vera battaglia non si gioca solo sul piano giuridico o politico: è una battaglia culturale. La separazione delle carriere, le valutazioni punitive per i magistrati, l’ossessione per il controllo, sono il riflesso di una società che ha perso la fiducia nei propri valori, che non crede più nella giustizia come spazio di confronto, dialogo e libertà.
Difendere l’autonomia della magistratura significa difendere noi stessi. Una giustizia libera è l’unica garanzia di una società libera. A chi sostiene questa riforma, chiedo: avete davvero riflettuto sulle conseguenze? Capite cosa significhi distruggere l’equilibrio tra i poteri? E a chi la osteggia, dico: non fermatevi alla critica tecnica. Fate appello alla cultura, alla storia, alla filosofia. Perché questa non è solo una battaglia legale: è una battaglia per l’anima della nostra democrazia.
La magistratura indipendente è l’ultimo argine contro la barbarie. Se cediamo oggi, domani rischiamo di perdere molto più di un principio giuridico, rischiamo di perdere noi stessi.