All’unanime riprovazione contro la violenza di cui sono spesso vittime non corrisponde un concreto impegno legislativo. La cultura patriarcale continua a impedire una concreta parità di genere
Tutti gli articoli di Opinioni
PHOTO
Nel 1950, Anna Banti pubblica uno dei suoi più celebri racconti che dà il titolo (oltre che, indirettamente, a questo nostro intervento) all’intera raccolta nella quale appare, fra gli altri, l’inarrivabile “Lavinia fuggita”. Dalla penna di una delle più raffinate scrittrici del 900 si tratteggia una distopia ambientata in un tempo lontanissimo compreso in un cinquantennio (dal 2617 al 2710) segnato da una pandemia che colpisce (almeno all’inizio) solo il genere maschile.
Solo gli uomini sono affetti da una malattia “selettiva”, che sarà conosciuta come “seconda memoria”, che rende il genere colpito depositario di visioni e di memorie delle precedenti vite nonché custode unico di un patrimonio mnemonico, garantendo l’evoluzione della specie e l’immortalità. “Le donne”, invece, “muoiono” e con la morte nessuna ricorda, perdendole, le precedenti esperienze. L’immortalità esperienziale degli uomini contro la mortalità obliosa delle donne, condotte a una “condizione di subalternità” perché prive del patrimonio del ricordo e ridotte all’«inferiorità del destino».
Le “donne” di Anna Banti “morivano” nel senso che erano marginalizzate dallo spazio pubblico, non in grado di lasciare traccia del loro trascorso, ridotte a una condizione privata (di partorienti) di cui gli uomini «facevan sempre meglio a meno». Di fatto, erano escluse dalla costruzione di una storia piegata sul solo maschile, fondata su un unico linguaggio e una legislazione autoreferenziale irragionevolmente riluttanti alla parità. C’è da chiedersi, allora, se, uscendo dal “racconto”, si sia ancora di fronte o meno a una memoria collettiva solo maschile in cui la donna continua a occupare un posto di subordinazione che la porta, per esempio, a dover accettare una retribuzione inferiore a quella degli uomini (e se madre ancora meno), o ancora la criminalizzazione dell’aborto, così come la scarsa presenza nelle istituzioni politiche.
Le domande sono evidentemente retoriche; la cultura patriarcale persiste, tanto che Giorgia Meloni definita «uomo dell’anno»! Molto si è fatto, ma tutto con estremo ritardo: il diritto di famiglia è stato riformato solo nel 1975; ed è del 1978 la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza. Ma da allora poco di più, e soprattutto dai primi anni 2000 si è iniziato a rinviare all’«uso politico del potenziale simbolico del penale» (Tamar Pitch, “Il malinteso della vittima”, 2022). Non abbiamo bisogno di più codice penale ma, piuttosto, di un impegno per una memoria collettiva inclusiva che promuova pari opportunità e differenza di genere, così come vuole da settantasei anni l’art. 3 della Costituzione.
La donna non deve essere ridotta a vittima, perché in tal modo viene banalizzata la complessità del fenomeno della violenza, limitato all’aggiornamento macabro delle morti da femminicidio. I numeri astratti e decontestualizzati non sono in grado di descrivere un fenomeno che è complesso e che non può che richiedere complessità di analisi. E comunque, ridurre la donna a vittima significa scaricare le problematiche sul solo diritto penale e dimenticare il ruolo della politica, costruendo un processo di autoassoluzione della politica stessa.
È necessario investire in cultura, in pedagogia, in asili nido, in centri anti-violenza, nell’educazione e nel rispetto dei generi, fin dalle scuole, fin dal linguaggio, fin dalle relazioni sindacali, etcetera. Tutto questo ha un costo, richiede ingenti risorse pubbliche e collettive in grado di costruire relazioni paritarie e non diseguali nel mondo lavorativo, familiare e, quindi, di coppia. Se si presta attenzione a un dato fattuale su cui molte volte si sorvola, ovverosia che le donne sono uno dei due modi d’essere del genere umano e che sono anche più numerose degli uomini, ben si può affermare che le donne continuano a essere più che minoritarie nella vita politica e istituzionale del Paese.
Se costrette a lasciare il “full-time” alla (per la) nascita di un figlio, se il tempo della cura (“welfare” familiare) è affidato a loro e solo a loro, se le donne continueranno a essere “dipendenti” dall’Altro genere, dal non avere tempo e cura di sé, allora continueranno “non solo a morire, ma anche a essere uccise” da chi dice di amarle ma in realtà le considera oggetti di possesso, ridotte a esseri “subordinati” così come fa da sempre la società tutta. Oggi è il primo dell’anno e il terribile conteggio ci consegna una realtà violenta e inaccettabile. Se si prendono a riferimento i dati forniti al “Report settimanale del Ministero dell’Interno”, che, però, non impiega mai la parola femminicidio, sappiamo che relativamente al periodo 1° gennaio – 26 dicembre 2023 sono stati registrati 323 omicidi, con 118 vittime donne, di cui 96 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 63 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner. Dati che a partire dal 2019 vengono elaborati dall’Istat, istituto che benché abbia deciso di stimare il numero di femminicidi, impiegandone anche il lemma, non si è ancora dotato di una sezione dedicata presso la propria banca dati (IstatData).
Se fino a qualche tempo fa si parlava di uxoricidio (l’ambito era esclusivamente quello coniugale) ora il fenomeno da prendere in considerazione è assai diverso, anche se non si sa realmente quanto, visto che i dati non sono raccolti e analizzati secondo un database costruito con criteri riconosciuti internazionalmente e aggiornato con metodi statistici adeguati. Ora, però, “ce lo chiede” l’Agenda 2030 e più precisamente l’ONU con il “Quadro statistico per misurare l’uccisione di donne e ragazze in relazione al genere (noto anche come “femminicidio”)”. “Quadro” che è stato preparato dall’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga e il crimine e per l’uguaglianza di genere e l’emancipazione delle donne, e approvato dalla Commissione statistica delle Nazioni Unite nella sua 53a sessione del febbraio 2022.
Dunque, conoscere il dato per comprendere nella sua reale portata il fenomeno, su cui non si può discutere solo nel giorno del lutto. Si legge, in tale documento, è necessario individuare «i principali dati che dovrebbero essere raccolti per fornire informazioni sulle vittime, sui responsabili e sulla risposta dello Stato alle uccisioni di donne e ragazze legate al genere». E allora, in attesa di dati maggiormente “esplicativi”, quotidianamente le statistiche si limitano ad aggiornare la tragica contabilità dei femminicidi, che è sempre al rialzo. Un conteggio inaccettabilmente veloce, irrefrenabile, a cui fanno seguito le prese di posizione di autorevoli esponenti politici in generale e della ministra della famiglia in particolare, che altro non fanno che promettere inasprimento delle pene e nuovi reati. Ed ecco, allora, la legge n. 24 novembre 2023, n. 168, che rientra perfettamente nella logica del pan-penalismo in cui incorre quotidianamente questo Governo. Riscontrato un problema, la soluzione pronta è quella della risposta securitaria.
La violenza sulle donne, che continuano a essere rappresentate come oggetto del potere maschile, è un atto talmente connaturato ai nostri rapporti quotidiani che è davvero impressionante come non si colga che il solo diritto penale -con il suo carattere afflittivo e tendente alla deterrenza verso i comportamenti delittuosi - non può tutto. Questo è d’altra parte evidente, perché il fenomeno richiede un approccio multidimensionale, affrontando le radici culturali e sociali della violenza di genere.
In questi primi giorni dell’anno, i numeri aggiornati dei femminicidi rimandano a una realtà inaccettabile che richiede un impegno profondo e sostenuto per cambiare il paradigma delle relazioni uomo/donna, non bastando, evidentemente, una legislazione “contro la violenza di genere” che si chiude sempre allo stesso modo, ovverosia con una clausola di ‘invarianza finanziaria’: come l’art. 21 della l. n. 69/2019 (il c.d. codice rosso) e l’art. 19 della l. n. 168/2023 (legge pubblicata dopo la violenta morte di Giulia Cecchettin) «Dall’attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica.
Le amministrazioni interessate provvedono all’attuazione dei compiti derivanti dalla presente legge con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente». E ancora, a dieci anni dalla legge 15 ottobre 2013, n. 119 “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere”, i fondi per la prevenzione annualmente diminuiscono e fra questi - al di là delle belle parole - quelli per gli interventi di educazione e sensibilizzazione quasi spariscono. In conclusione, “Le donne muoiono”, ancora, perché il solo rinvio al diritto penale è efficace dal punto di vista del linguaggio ma è indice di una semplificazione dei problemi, rimanendo inalterato il rischio per le donne -per dirlo con Virginia Woolf (“Le tre ghinee”, (1938), 2014) - di continuare ad ascoltare quei «cupi rintocchi di una musica crudele: non devi, non devi, non devi. Non devi imparare; non devi guadagnare; non devi possedere, non devi …».
*costituzionalista DESF-UniCal