di Ugo Adamo, Silvio Gambino, Giampaolo Gerbasi, Walter Nocito, Fernando Puzzo*

Durante la prima fase della pandemia da Sars-Cov2, come si ricorderà, molti se non tutti gli esponenti dell’attuale maggioranza parlamentare denunciavano dall’opposizione la violazione della Costituzione per l’uso dei Dpcm (decreti del Presidente del Consiglio dei ministri), causa di limitazione di diverse libertà fondamentali a opera del Governo Conte 2. La Corte costituzionale, ma non solo, ci ha rassicurato sul fatto che nessuna violazione vi fu. Tuttavia pare davvero singolare che (in assenza di situazioni emergenziali e con estrema disinvoltura) le stesse forze politiche vogliano, con le scelte che stanno compiendo in questi giorni, violare (questa volta sì) la Carta costituzionale proprio col tanto criticato strumento dei Dpcm, con esautoramento plateale del Parlamento.

Lo scorso 14 febbraio – infatti – è iniziato l’esame in Commissione legislativa alla Camera dei deputati del testo Calderoli, dopo che lo stesso era stato approvato, con modifiche, in Senato il 23 gennaio. Anche alla luce delle modifiche intervenute durante il dibattito, la posizione della maggioranza parlamentare può essere così sintetizzata: l’autonomia differenziata non costituisce alcun problema per i principi e i diritti costituzionali in quanto la richiesta di maggiore autonomia può essere attivata solo se e nella misura in cui i Livelli essenziali delle prestazioni(Lep) siano già definiti. La definizione dei Lep comporta de plano la fissazione del costo standard di ogni singola prestazione, con il che la somma di tutti i costi per ciascun Lep quantifica il fabbisogno di spesa standard ovverosia l’ammontare delle risorse finanziarie da assegnare a ciascuna delle venti regioni che costituiscono la Repubblica, per l’esercizio delle relative funzioni. A quel punto, garantita l’uguaglianza – quasi ci si trovasse dinanzi a un algoritmo infallibile – tutte le regioni non solo garantiranno i diritti fondamentali nel loro livello essenziale ma potranno erogare anche livelli ulteriori se saranno in grado di reperire, in modo autonomo, risorse per il loro finanziamento e il conseguente godimento.

Da questa tranquillizzante osservazione nasce la retorica dell’efficienza amministrativa, che sarebbe in grado non solo di generare risparmi nella spesa pubblica in grado di far erogare prestazioni ulteriori ai livelli essenziali (nelle regioni più meritevoli), ma anche di favorire un moto di automiglioramento in quelle regioni che oggi non brillano in efficienza. Se ciò non dovesse accadere, non solo sarebbe ratificata l’inefficienza di alcune politiche regionali con conseguente diseguaglianza in tema di diritti fondamentali ma – soprattutto – si darebbe la stura a quel retro pensiero per cui la colpa dell’inefficienza, con conseguente impatto sui servizi pubblici erogati e quindi sull’appagamento dei diritti, è degli stessi amministrati per aver questi votato quegli amministratori!

Posta in questi termini la premessa essenziale per rifiutare la stigmatizzazione della povertà colpa dei poveri(sic!), possiamo ora interrogarci sul perché il Parlamento sarà (ancora una volta) esautorato, e se ha ragion d’essere l’affermazione per cui i Lep non sono definiti dal Parlamento dal momento che possono esserlo anche dall’organo esecutivo e dalla sua Presidente. Se tale posizione fosse corretta, allora, tutta la retorica che abbiamo potuto fin qui ascoltare – e che si continuerà sicuramente a sciorinare –sarebbe frutto dimera falsità propagandista. Dobbiamo anticipare al lettore che questa sarà appunto la nostra conclusione.

Il ddl Calderoli (art. 3) non solo delega la definizione dei Lep al Governo ma soprattutto prescrive che i successivi aggiornamenti siano definiti tramite Dpcm. Se ciò non bastasse, è addirittura previsto (art. 3, c. 9) che, nelle more dei decreti legislativi, i Lep possano essere anticipati sempre tramite Dpcm (o in caso di ritardo da un Commissario da questi nominato, quasi si trattasse di questioni amministrative ordinarie e non già dell’essenza di fondo del costituzionalismo, cioè di diritti fondamentali della persona), con la chiara conseguenza che il Governo si limiterà (molto più che probabilmente) ad attribuire al contenuto del Dpcm la forma del decreto-legislativo. Ricordiamo, infatti, che quando si delega al Parlamento è richiesto di determinare in modo preciso i principi cui il Governo dovrà conformarsi in sede di adozione dei decreti legislativi.

Sempre nell’art. 3 si legge che «il Governo è delegato ad adottare, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi, sulla base dei princìpi e criteri direttivi di cui all’articolo 1, commi da 791 a 801-bis,della legge 29 dicembre 2022, n. 197 (la legge di bilancio per l’anno 2023)».Si è ritenuta praticabile una determinazione di principi e criteri direttivi per relationem, ovverosia presenti non già nella legge Calderoli quanto piuttosto in una legge scritta due anni prima senza questo scopo. La delega per relationem costituisce un’eccezione e comunque per la Corte costituzionale essa è possibile a patto che il riferimento ad altri atti normativi sia sufficientemente specifico.

Qui i problemi sono almeno di due tipi. In primo luogo, l’articolo 15, c. 2, l. n. 243 del 2012 (legge cd. “rinforzata” recante disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’art. 81, c. 6, della Costituzione) stabilisce che la prima sezione della legge di bilancio (e naturalmente è questo il caso) non possa prevedere «norme di delega». In secondo luogo, i commi da 791 a 801-bis, non contengono alcuna norma di principio quanto piuttosto un contenuto di tipo procedurale che delinea come emanare una fonte secondaria, quale un dPCm, per la determinazione dei Lep nelle materie suscettibili di autonomia differenziata presentati da una Cabina di regia (istituita presso Palazzo Chigi), oppure da un Commissario appositamente nominato nel caso in cui la Cabina di regia non riesca a concludere la sua attività nei tempi stabiliti. Saremmo, evidentemente e inoltre, dinanzi a una ‘delega in bianco’; la qual cosa è decisamente incostituzionale.

Un gioco delle tre carte ancora una volta nascosto maldestramente. Tutto ciò ben sapendo che l’intesa tra lo Stato e la singola regione per il riconoscimento dell’autonomia differenziata non è soggetta a referendum, così come sarà difficile avanzare un referendum abrogativo avverso la futura legge Calderoli, costituendo essa l’unica attuazione della Costituzione. Al lettore potrà sembrare quanto meno stravagante, ma, prescindendo dalla sua legittimità, non si può richiedere un referendum interamente abrogativo verso una la legge che rappresenta l’unica attuazione della Carta costituzionale. La conseguenza di deliberare tale legge (che verrebbe definita come ‘costituzionalmente necessaria’) è quindi quella di dar seguito a un pendio scivoloso difficilmente controllabile.

Anche per questa ragione, assumiamo con forza che il Parlamento non può essere esautorato dal suo ruolo e dalle sue responsabilità politiche (la definizione dei Lep è in primis materia politica), e ciò nella misura in cui la definizione dei Lep non può che essere affidata alla legge parlamentare diventando essi, molto più che per il passato, l’unico strumento di equilibrio del rapporto Stato-regioni. Lo strumento normativo per la disciplina di una materia di esclusiva competenza dello Stato (la determinazione dei Lep lo è secondo l’art. 117, c. 2, lett. m)), in tale prospettiva, deve essere rispettoso e adeguato alle esigenze della democrazia costituzionale da garantirsi anche in processo di regionalismo differenziato minimamente rispettoso dei principi di cui agli articoli2, 3 e 5 della Costituzione (Stato costituzionale di diritto, sociale, unitario e solidaristico) che non consentono uno ‘Stato arlecchino’ con competenze differenziate nel godimento dei diritti di cittadinanza unitaria.

*costituzionalisti Università della Calabria