Con la progressiva demolizione del Servizio Sanitario Nazionale, il diritto costituzionale alla salute viene dunque messo di fatto in discussione, mentre crescono le differenze geografiche e gli squilibri tra regioni
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Non c’è da stare allegri nel dare uno sguardo, anche solamente “aereo” e panoramico, alla sanità italiana. Su questo terreno, come su molti altri del resto, è difficile distinguere un governo dall’altro. In ogni caso dopo la pandemia tutti hanno parlato della necessità di un rilancio del Servizio Sanitario Nazionale, ma non sembra proprio che alle parole siano seguiti i fatti, nemmeno uno, nemmeno simbolico. Ci sono evidentemente molti stereotipi e luoghi comuni da sfatare, soprattutto per chi si attarda sul “mantra” degli “sprechi” della sanità pubblica. Come prima cosa andrebbe detto che sono molto più spesso le strutture private che, essendo improntate alla logica del profitto sul diritto alla salute, certo evitano “sprechi” ma risparmiano perfino sul filo chirurgico con i discutibili risultati che si possono immaginare ed a volte, ahinoi, anche osservare.
Ma soprattutto va detto che l’Italia continua ad essere uno dei paesi europei che investe di meno nella salute dei propri cittadini. Tre anni fa il Rapporto Osservasalute mostrava che nel 2020 la spesa sanitaria italiana, a parità di potere d’acquisto, si è mantenuta molto più bassa della media europea, sia in rapporto al PIL che termini di valore pro capite. Tre anni fa l’Italia spendeva infatti 2.609 euro per ogni suo cittadino contro i 3.269 euro medi degli altri paesi europei ed impegnava solo il 9.6 per cento del suo PIL contro il 10.9 per cento della media europea. Lo scorso anno la spesa sanitaria pubblica si è attestata a centotrentuno miliardi di euro, cioè al 6.8 per cento del PIL, il che significa che in un anno la quota di PIL impegnata nella spesa sanitaria era scesa del 3 per cento. Purtroppo, se si considerano i mancati investimenti, le liste di attesa, la carenza di personale, le strutture da rimodernare e quelle che vengono chiuse non abbiamo ragione di credere che nell’ultimo anno le cose siano migliorate, anzi si può dire il contrario.
Al pronto soccorso del Policlinico San Marco di Zingonia, in provincia di Bergamo, pagando 149 euro non si fa la coda e si viene assistiti subito, anche se si ha un codice bianco o verde. La cifra sale a 500 euro in presenza di esami strumentali. Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, ha commentato: «È il fallimento della sanità pubblica, incapace di garantire il minimo servizio universale in tempi ragionevoli, apre spazi di business ai privati. E crea nuove insopportabili discriminazioni».
Appare evidente che la nostra sanità avrebbe bisogno di più soldi, ma il governo Meloni, come quelli precedenti del resto, non ha nessunissima intenzione di procedere in questa direzione, anzi si prevede che il prossimo anno la quota di PIL impegnata nella spesa sanitaria scenderà al di sotto del 5 per cento. Giancarlo Giorgetti, ministro dell’economia, ha smorzato ogni velleità del ministro della sanità Orazio Schillaci, che aveva chiesto quattro miliardi di euro in più per il fondo sanitario, da impiegare soprattutto per l’assunzione di nuovo personale: «Non si può fare tutto», ha dichiarato Giorgetti in maniera piuttosto impudente. Ma come si può correre il rischio di “fare tutto” se, fino a questo momento, non si è fatto niente?
Nel 2020 settecentosettantasei medici in più rispetto al 2019 hanno lavorato nel Servizio Sanitario Nazionale, nel 2021 ne sono risultati seicentouno in meno. Tra il 2019 ed il 2021, cioè nel periodo della pandemia, l’aumento del personale medico in Italia è stato dunque pari solo allo 0.17 per cento, che corrisponde a centosettantacinque medici su un totale di centoduemilaquattrocentonovantuno (rapporto “Personale delle ASL e degli istituti pubblici ed equiparati”, Ministero della Salute).
Certo la pandemia del 2020 - 2022 non ha fatto che accelerare e acuire la crisi di un Sistema Sanitario Nazionale già in crisi: «In Italia si corre il rischio di avere una tempesta perfetta», ha spiegato Walter Ricciardi, direttore di Osservasalute, in varie interviste, «Da un lato c’è l’aumento dei fattori di rischio per diverse malattie legati sia alla demografia della popolazione, sia all’epidemiologia con un importante aumento delle malattie croniche, dall’altro il deterioramento forte di un Servizio Sanitario Nazionale che riesce sempre meno a garantire anche i servizi essenziali. Si allungano le liste d’attesa, mentre i pronto soccorso sono sempre più affollati e sempre più in ritardo, loro malgrado, nel dare risposte tempestive ai cittadini».
Nino Cartabellotta sulla “Stampa” aggiunge: «Stiamo spianando definitivamente la strada a una sanità regolata dal libero mercato, dove l’accesso a tecnologie diagnostiche e terapie innovative sarà limitato a chi potrà pagare di tasca propria o avrà stipulato costose assicurazioni sanitarie, che tuttavia non potranno mai garantire una copertura globale come quella offerta dalla sanità pubblica».
Per giunta l’Italia ha la popolazione più anziana d’Europa, perché ventiquattro Italiani su cento hanno un’età superiore a sessantacinque anni e l’invecchiamento della popolazione corrisponde ovviamente ad un aumento dei pazienti cronici, che sono particolarmente colpiti dalla crisi del sistema. Con la progressiva demolizione del Servizio Sanitario Nazionale, il diritto costituzionale alla salute viene dunque messo di fatto in discussione, mentre crescono le differenze geografiche e gli squilibri tra regioni. Sono ancora molti infatti i cittadini che si spostano nel Nord per curarsi ed impoveriscono il proprio servizio sanitario regionale. Questa “emigrazione sanitaria” statisticamente favorisce in particolare Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto e danneggia in particolare Campania, Lazio, Sicilia, Puglia, Abruzzo e Basilicata. Oh, guarda, guarda…Nord e Sud, di nuovo, sempre.
Ma da dove viene questa crisi? Dalla solita Italia e dalla solita “questione meridionale”? Solo in parte. In realtà questa Italia a due velocità, che esiste da sempre, è stata blindata dalla crisi della sanità pubblica e quest’ultima è figlia della lunga sbronza “imprenditoriale” che, dai tempi della “riforma” del 1978, passando attraverso governi di ogni tendenza, arriva agli assurdi “parametri nazionali” per la chiusura di ospedali e reparti maternità.
È questo mito del “libero mercato” che ha determinato la privatizzazione, strisciante ma non tanto, della sanità, ma di questo mito sono malate sia la destra, più i meno fascisteggiante, che la cosiddetta “sinistra” politicamente corretta. E, per carità, non si venga ad affermare che questo è qualunquismo, come si diceva una volta, o “antipolitica”, come si dice oggi.