Il Recovery fund può rappresentare una grande opportunità per abbassare i tributi ma soprattutto per ristabilire un clima di fiducia nelle persone
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Il primo tassello, da cui partire per la realizzazione di un “progetto integrato”, finalizzato a risollevare la Calabria dalla condizione di abbandono in cui si trova, è senza dubbio la riduzione del carico fiscale che grava sui cittadini. Troppe imposte frenano lo sviluppo della nostra Regione come quello dell’intero Paese.
Lo studio dell’economia ci insegna che, oltre un certo livello di tassazione, le persone preferiranno non lavorare più. I modelli teorici ci dicono che nella scelta tra “lavoro” e “tempo libero” in funzione delle aliquote fiscali, il lavoratore avrà come sua scelta ottimale, discendente anche da calcoli matematici, quella di rinunciare ad incrementare le ore di lavoro ed aumentare quelle del suo tempo libero. Basti anche pensare alla nota Curva di Laffer, per quanto nella letteratura economica da alcuni criticata, perché non poggerebbe su un costrutto teorico, ma esclusivamente sull’osservazione ed elaborazione di dati empirici. Le imposte sono veramente tante: dirette (esempio irpef, ires) e indirette (esempio Iva, Tassa di Registro). Si consideri, inoltre, che in una Regione come la Calabria, dove i Comuni sono per lo più in uno stato di dissesto o predissesto, anche le aliquote delle tasse comunali, che possono essere fissate dall’Ente tra un minimo ed un massimo, si trovano al livello più elevato. Le stesse addizionali comunali Irpef sono elevate, e la stessa addizionale regionale Irpef è alta, per non parlare, poi, di tante altre imposte che franano lo sviluppo (esempio, tassa di soggiorno).
L’eccessivo carico fiscale da un lato porta spesso ad un’evasione, in tutto o in parte, del versamento delle imposte e dall’altro porta l’italico ingegno (che non manca mai!) a cercare in qualche modo di eludere la tassazione. Anche, però, per chi regolarmente paga le imposte, livelli di tassazione elevata, come abbiamo detto, inducono a rinunciare ad ulteriori ore di lavoro, specie se il compenso aggiuntivo fa scattare una aliquota marginale più alta, e, quindi, viene meno una contribuzione in termini valore di beni e servizi al Prodotto Interno Lordo (Pil). Ridurre il carico fiscale, pertanto, darebbe indubbiamente liquidità alle imprese e alle famiglie, e, ciò, ipotizzando una propensione marginale al consumo pari all’unità, comporterebbe un aumento più che proporzionale nella domanda globale di beni e servizi. Se la domanda globale aumenta, le imprese sono incentivate a produrre e ad assumere persone disoccupate, e, così facendo, distribuiranno altri redditi, i quali a loro volta si tradurrebbero in ulteriore domanda ed in ulteriore occupazione: è il virtuoso meccanismo del moltiplicatore, di cui J.M. Keynes tratta nella sua opera principale, ovvero Teoria generale dell’interesse, dell’occupazione e della moneta.
Aumentando il reddito globale, soggetto a tassazione, aumenterebbe anche il gettito fiscale in valore assoluto per quanto le aliquote fiscali siano state diminuite. Si consideri, poi, che ridurre le tasse significa beneficio immediato per i cittadini, aiuto concreto senza dover passare per contributi statali, che sarebbero soggetti ai pericoli della burocrazia, dei quali vi è intenzione di trattare in altro contributo. A questo punto, però, il quesito sorge spontaneo: ma se è tutto così semplice, perché non è stato fatto e non si fa? Risposta: non è tutto così semplice! Il presupposto, affinchè il processo si avvii, è che il risparmio di liquidità, dovuto alla minor tassazione, venga speso dai cittadini, ovvero si traduca in domanda di beni e servizi. In realtà, in una situazione economica e sociale così incerta come quella attuale, chi ha liquidità tende a risparmiarla, non a spenderla o investirla, in quanto, come sempre la teorica economica ci insegna, gli individui sono mediamente avversi al rischio. E i dati ci dicono proprio questo!
In base ad uno studio condotto di recente dall’Abi, sui conti correnti degli italiani ci sono circa 1.682 miliardi di euro, ovvero una montagna di risparmi uguale al Pil del 2020! E allora? Se non si spende, la macchina dello sviluppo non parte. Lo stesso Keynes ce lo dice, quando afferma che il livello di investimenti delle imprese non dipende solo dal tasso dell’interesse, ma anche dall’Efficienza Marginale del Capitale (Emc), ovvero dalle prospettive future di rendimento. Che fare? Risulta evidente che una semplice rivoluzione fiscale non basta, ed è lo Stato che si deve far carico di avviare il processo di sviluppo: deve immettere liquidità nel sistema, deve spendere e fare in modo che questa liquidità arrivi celermente ai cittadini, che a loro volta devono essere incentivati ad incrementare la loro domanda di consumo. Keynes avrebbe detto: bisogna far lavorare la gente e distribuire reddito, a costo di prendere dei lavoratori disoccupati, far loro scavare dell buche e, poi, fargliele riempire nuovamente, pagandoli per questa prestazione! Il motore della crescita deve essere acceso a tutti i costi, e si deve fare subito: non si può aspettare che “nel lungo termine” le forze di mercato aggiustino tutto, bisogna fare tutto nel breve, anzi brevissimo, termine perché nel lungo termine saremo tutti morti!
In questo non si può perdere l’enorme opportunità che il Recovery Fund può offrire, anche per abbassare le tasse, ma soprattutto per ristabilire un clima di fiducia nelle persone, senza il quale la ripresa sarà difficilissima, se non impossibile.
Non basta una Politica Fiscale adeguata, ma è necessaria una attenta Politica Economica che la deve accompagnare.
Se l’economia si riprende, aumenterà il Pil e, pertanto, anche l’indebitamento diverrà sostenibile, ovvero si avrà la capacità di ripagarlo. Ci vuole il solito Progetto integrato, di cui una Rivoluzione Fiscale è un tassello, che è solo una piccola parte di tutto il mosaico.
Nel suo insieme per un progetto integrato di sviluppo, ci vuole una Rivoluzione Culturale ad ogni livello, e di questa Rivoluzione illustreremo un altro tassello in un prossimo intervento.