Si è giovani, il traguardo della “maturità scolastica” è raggiunto, si è soddisfatti per aver terminato un percorso che è da viatico all’inizio di uno nuovo, individuato, ponderato, sotto la spinta dell’esempio di un familiare che già esercita la professione, o di un amico o di un sogno coltivato fin da bambini, chissà poi perché.

Arriva settembre e ci si immette nella lunga fila della segreteria universitaria (a quei tempi, i miei, non esisteva il numero chiuso, tutti avevano il diritto di iscriversi alla facoltà che intendevano frequentare). È fatta: ci si è iscritti a Medicina e Chirurgia.

Hanno inizio sei lunghi anni di lezioni (sovraffollate allora, almeno nei primi due anni), di ore ed ore spese sui libri, di sabati e domeniche trascorsi in casa a studiare alla vigilia degli esami e della consapevolezza che, ancor prima di laurearsi debba decidere in cosa poi specializzarsi.

E noi l’abbiamo fatto, abbiamo scelto Pediatria, abbiamo iniziato a confrontarci, nei reparti delle varie Università italiane, con quel mondo costituito da mamme e papà, a volte di nonni, zie e di loro: dei bambini.

A conclusione di questo ulteriore percorso abbiamo scelto, ancora una volta, che pediatra essere, se lavorare in ospedale od occuparci quotidianamente dei bambini di un territorio, seguendone con costanza la crescita fin dai primissimi giorni di vita, confrontandoci con le ansie e preoccupazioni dei loro familiari, ma senza mai perdere di vista loro, i nostri piccoli pazienti, la loro salute, i loro bisogni, la loro armonia. Li assistiamo fino a vederli diventare adolescenti, li sentiamo un pò nostri e poi ce li ritroviamo di nuovo là, nei nostri ambulatori, dopo alcuni anni, magari nuovi papà e nuove mamme.

E siamo questo, pediatri di famiglia anche nella nostra difficile regione, ostica sotto diversi punti di vista e dove la nostra professione diventa quasi di frontiera.

Siamo il primo livello della Pediatria e le strutture ospedaliere regionali ci offrono un secondo livello generalistico (salvo rarissime eccezioni), con la grande difficoltà di far curare i nostri pazienti in loco se soffrono di patologie che necessitano di un approccio più specialistico e di terzo livello.

Quando proviamo ad affrontare il problema della carenza di un Ospedale Pediatrico in Calabria con chi di dovere (politici, amministratori regionali) ci sentiamo rispondere che non ci sono i numeri e cioè che la popolazione dei bambini dovrebbe essere maggiormente rappresentata per poter avere le diverse branche specialistiche pediatriche quali neuropsichiatria infantile, cardiologia, ortopedia, gastroenterologia, endocrinologia e così via. Per costoro i nostri bambini debbono, giocoforza, affrontare viaggi, oltre che spese e lunghi periodi da trascorrere lontani da casa, per potersi curare.

Noi pediatri, però, siamo ancora qui, confinati nei nostri ambulatori solo fisicamente, ma con la capacità di avere intessuto rapporti di conoscenza e stima con i Professori delle diverse branche pediatriche sparsi per l’Italia, magari nel corso dei tanti congressi di aggiornamento che ci troviamo a frequentare e ci facciamo carico, prendiamo contatti, organizziamo la cura per i nostri pazienti là dove potranno ricevere la migliore.

E ci preoccupiamo, spesso non prendiamo sonno, piangiamo, non visti, per tornare a sorridere per il prossimo paziente o per quello guarito, che ce l’ha fatta, anche grazie a noi.

E lo siamo ancora, pediatri in quest’epoca che tutti ricorderemo come quella del Covid 19, l’epoca in cui ci viene chiesto un diverso approccio con i nostri pazienti, fatto soprattutto del cosiddetto triage telefonico, con visite strettamente programmate ed effettuate in accortezza (dove i presidi di sicurezza, lo sappiamo tutti, per lo più sono insufficienti).

 

È questo un periodo in cui le carenze strutturali si fanno intravedere anche dove non ce lo aspettavamo, nelle regioni dell’eccellenza sanitaria, piegata da un male invisibile e pericoloso e dobbiamo prendere atto, questa volta tutti e non solo gli operatori sanitari, dell’importanza del servizio sanitario nazionale, del fatto che non può e non deve essere depauperato e mortificato come è, invece, avvenuto in questi ultimi anni, che non si può discutere di numeri, come nel caso dell’ospedale pediatrico in Calabria, ma solo di persone, con il loro sacrosanto diritto alla salute, quella per bambini, giovani, adulti, anziani.

Un Paese che si definisca civile non può non avere questo come faro e deve, assolutamente, dare merito ai migliori, ai più capaci, a coloro i quali lavorano con dedizione ed impegno e, perché no, coraggio. In sanità proseguire sulla strada del bieco campanilismo, degli incarichi per gli amici e gli amici degli amici, dove scelte determinanti sono spesso lasciate a persone incompetenti, è folle oltre che delittuoso.

Il sistema sanitario italiano è ancora e nonostante tutto, uno dei migliori al mondo, la pediatria di famiglia ne è un caposaldo, i tragici giorni che stiamo vivendo ci stanno insegnando che non possiamo mortificarlo ancora, che abbiamo il dovere di rafforzarlo e che è indispensabile uno storico cambio di passo.

Il sistema sanitario deve tornare ad essere nazionale a tutti gli effetti, i cittadini di ogni età e stato sociale devono avere il diritto alla cura, nello stesso identico modo e ad ogni latitudine. Ne abbiamo il diritto. Ne abbiamo il dovere.

Maria Grazia Licastro, Presidente Fimp Catanzaro