Nei romanzi dell’autore calabrese la natura è spesso al centro della narrazione. Nelle sue storie il fico e l’ulivo bianco diventano alleati di ogni maturazione
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Carmine Abate, prolifico romanziere nato a Carfizzi in provincia di Crotone, ha spesso posto un albero al centro della narrazione. Recentemente lo ha fatto, sin dalla scelta del titolo, con L'albero della fortuna, pubblicato per i tipi di Aboca nel 2019 e, lo scorso anno appena, con L'olivo bianco, uscito sempre per le stesse edizioni. Non si tratta di un motivo individuato a caso e il più delle volte è un elemento che supporta e corrobora il tema centrale della storia: l'infanzia o, più propriamente, il tempo che da essa è trascorso e il ricordo che se ne conserva. La struttura dell'albero, nella Calabria magica di Abate, sembra avere una qualche rispondenza con l'idea di romanzo che, per rivelare la propria essenza, ha bisogno dell'apporto di chi lo osserva, di chi si ferma all'ombra delle sue foglie ascoltandole stormire al vento, come se fossero parole.
La percezione dell'albero, che sia un irreale fico dall'osso oppure un rarissimo ulivo bianco, e il regime narrativo si influenzano vicendevolmente, anche perché l'autore arriva a legare sentimenti ed emozioni a entrambe le azioni. Il regime, che richiama quello disposto da Italo Calvino nel Barone rampante, è quello del Super Io, vale a dire quello dello sguardo. Esso è sorvegliato dal dio-albero che sovrasta ogni individuo, ogni luogo, e diventa la quintessenza del meridianismo o, se si vuole, dal realismo meridiano di Abate.
Il senso dell'albero, sacrificato alle esigenze della modernità nell'Albero della fortuna e poi ripiantato nel piccolo podere scosceso denominato Olivo di Luca posto al centro del romanzo più recente, è legato strettamente alla sorte della comunità migrante: quella dei figli, costretti come i padri a emigrare per sfuggire da una realtà che, per chi invece resta, ritorna sempre uguale. Sorte che ritorna come una parola che continua a rimbombarmi nella testa o come il coro furibondo degli uccelli che, nascosti tra i rami di un albero, mi svegliano ogni mattina.
Ecco che il divenire del cosmo, verticalizzato dal simbolo dell'albero, incontra l'ordine dell'uomo: il fico e poi l'ulivo bianco, conosciuto come Leucolea, ben lungi dall'essere soltanto oggetti inerti, diventano alleati di ogni maturazione e di ogni crescita, tutori verticali e vegetali di ogni progresso effettivo che è perseguibile soltanto attraverso la strada dell'immaginazione. Insomma, non ha forse ragione Gaston Bachelard quando sostiene che l'immaginazione non sia altro che il soggetto trasferito nelle cose? Perché non in un albero simbolo di diversità e di bellezza?