Obbligare all’uso delle parole “padre” e “madre” comprime i diritti civili e manda in tilt gli uffici pubblici quando a richiedere il documento sono legittimamente due genitori dello stesso sesso
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“Se le parole hanno un senso” avrebbe potuto essere il titolo di questo nostro commento, perché proprio a questa espressione si è pensato subito dopo la lettura di un articolo pubblicato sul quotidiano La Repubblica, rilanciato poi da tutte le maggiori agenzie di stampa
Era il 2019 quando l’On. Salvini, allora ministro degli Interni, decideva con un atto amministrativo (un decreto ministeriale) di ‘imporre’ una discutibile applicazione della legge in tema di modifica delle informazioni riportate sulla carta d’identità elettronica dei minorenni e dell’indicazione dei soggetti che possono richiedere, per il minore, il rilascio di tale documento d’identità.
La normativa in materia - a far data dal regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (per intenderci un decreto promulgato da Vittorio Emanuele III " per grazia di Dio e per volontà della Nazione" Re d'Italia) - prevede che per la carta d'identità del minore (elettronica dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 codice dell'amministrazione digitale) si riportino i nominativi dei suoi "genitori" e che il rilascio di tale documento possa essere richiesto, appunto, dagli stessi "genitori". Ciò era ben scritto, da ultimo, nel decreto ministeriale del 23 dicembre 2015.
Nel 2019 (decreto del 31 gennaio), invece, è stato cambiato tale atto amministrativo con modifiche che riguardavano la sostituzione, in più parti del decreto e degli allegati (quindi tanto nella carta d’identità, quanto nei moduli di richiesta e nella relativa disciplina), della parola “genitori” con le parole “padre” e “madre”.
Non ci sono dubbi che le parole “madre” e “padre” siano «bellissime, che siano le parole più belle del mondo» (queste le parole pronunciate dal ministro, oggi delle Infrastrutture e dei Trasporti), ma in molti casi risultano de facto oltre che de iure inadatte, tanto che la loro imposizione può generare problemi gravissimi e produrre comportamenti da sanzionare con Codice penale alla mano. Dinanzi a tale ottundimento, non c’è soluzione, ma solo soccombenza.
L’indicazione dei nomi dei genitori sulla carta di identità di un minore non ha nulla a che vedere con presunti diritti procreativi non riconosciuti dall’ordinamento (questa l’accusa mal celata) ma ha solo il fine di rendere noto a chi di dovere chi siano le persone investite della responsabilità genitoriale e per tale ruolo autorizzate ad accompagnare il minore (questa è la ratio).
Minore - lo si ricorda provocatoriamente - che in caso di una vacanza in un Paese terzo e nell'Unione europea difficilmente riuscirebbe a viaggiare da solo!
Se le parole hanno un senso, allora, queste vanno usate bene perché sono diverse le ipotesi per cui va garantita la finalità dell’inserimento dei dati dei genitori nella carta di identità del figlio, la cui ratio che fa tutt’uno con il principio di esattezza dei dati personali e della tutela dell’identità personale (non è un caso che il Garante della Privacy abbia depositato nel 2018 un parere contrario - evidentemente non preso in considerazione - all’adozione del c.d. “decreto Salvini”.
Vi sono alcune ipotesi per cui alle modifiche apportate (da ‘genitori’ a ‘padre’ e ‘madre’) non può darsi seguito: come compilare attraverso un software pre-impostato (padre e madre) la carta di identità di una figlio/a nato/a da una donna con la fecondazione assistita e, poi, adottato/a dalla compagna della madre? Siamo dinanzi a un fatto che chiede risposte: due mamme o meglio, due genitori che hanno verso il bambino o la bambina medesime responsabilità genitoriali.
Dato tale contesto - con le modifiche in parola -, per ottenere il documento di identità elettronico del/la figlio/a sono percorribili due strade per non incorrere nel dispendioso (economicamente e non solo) ricorso al giudice: uno dei due genitori pur essendo donna dichiara di essere il padre (e allora la fattispecie sarà quella della falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico, attribuendosi una identità che non gli appartiene) ovvero l’addetto presso l’ufficio di stato civile del comune di residenza della madre e del (falso) padre dovrebbe attestare ancora una volta un dato non veritiero (commettendo falsità ideologica a carico dal pubblico ufficiale in atti pubblici).
Ritorniamo, come nel gioco dell’oca, all’inizio della vicenda, e ripetiamo che la parola genitore ‘ha il senso’ di rendere noto a chi di dovere chi ha la responsabilità genitoriale.
Scartate le due ipotesi di dichiarazione mendace, con concorso di commissione di reato, la vicenda non poteva non arrivare davanti al giudice e più precisamente al Tribunale ordinario di Roma – XVIII sez. civile, che lo scorso 9 settembre ha disapplicato il decreto del Ministero dell’interno del 31 gennaio 2019 perché illegittimo e ha ordinato la modifica tecnica del software e dell’hardware del sistema di rilascio delle carte di identità elettroniche per una loro corretta compilazione.
Ecco il coup de théâtre: è di questa mattina, data dal quotidiano La Repubblica, che il Viminale di concerto con la ministra della Famiglia non intende cambiare il software, rimanendo per chi non fosse d’accordo solo la possibilità di “fare ricorso”. Ma i ricorsi, come dicevamo, costano e molti si arrenderanno davanti a una burocrazia che più che insensata è illegittima.
Pur potendo “suggerire” che nei casi d’urgenza (come può essere quello di un viaggio imminente) è possibile richiedere una carta di identità cartacea per il cui rilascio trova applicazione quel regio decreto del 1931 che rimane non discriminatorio, non si può non denunciare che davanti ai diritti la ricerca di un escamotage è troppo poca cosa.
*costituzionalista DESF-UniCal