Uno degli aspetti più negativi dei finti dibattiti della politica italiana è il fatto che argomenti molto seri vengono discussi sempre e solo nella misura in cui sono funzionali ad una qualche polemica di fase.

Uno degli argomenti più seri su cui recentemente si è fatto finta di discutere è l’articolo 41 bis sul “carcere duro”, sollevato dallo sciopero della fame del terrorista “anarchico” Alfredo Cospito, che rimanda logicamente al problema più generale della condizione delle carceri.

Liquidata la questione con l’argomento demenziale secondo cui un “anarchico”, per giunta in deriva terroristica, non può “ricattare” lo Stato agitando questioni di principio, si è frettolosamente concluso che la ridefinizione del 41 bis non è una questione di principio.

Ma una questione di principio resta tale anche se ad agitarla fosse il peggiore dei criminali ed allora onestà intellettuale impone di andare a riconsiderare non solo la legittimità del 41 bis ma dell’intera Legge Gozzini nel suo insieme. Ma è una “imposizione” che non sente nessuno, per il semplice fatto che l’onestà intellettuale in Italia non esiste e, se esiste, la sua misura è così minimale che non la si riesce nemmeno a percepire.

Un po’ di storia.

La legge 663, o Legge Gozzini, fu varata nel 1986, in pieno governo Craxi, in piena egemonia “CAF” social-democristiana, ad “anni di piombo” appena finiti ed in pieno maxi-processo di Palermo alla mafia.

Doveva essere essere la "riforma delle riforme", ovvero doveva cercare di correggere le incompetenze della riforma del 1975, ma questa legge fu, già all’epoca, svuotata di senso nel dibattito parlamentare.

Dopo il dibattito in Parlamento infatti quella di Gozzini non sarebbe stata più la legge che avrebbe dovuto permettere un graduale reinserimento sociale dei detenuti e delle detenute attraverso un'attività lavorativa esterna e la ripresa dei legami parentali ed amicali, ma divenne la legge che è oggi, una legge che "prevede", cioè concede, la possibilità di accedere all'esterno grazie ad uno "scambio" niente affatto equo.

In base alla Legge Gozzini i detenuti e le detenute devono “accettare” il sistema carcerario così com'è per poterne uscire. Il detenuto o la detenuta devono quindi fingere l'accettazione e preoccuparsi individualmente di tessere relazioni con le associazioni di volontariato che operano nelle strutture carcerarie, ad esempio la Caritas, di ispirazione cattolica, o l'ARCI, a suo tempo comunista. Inoltre, una volta fuori, il detenuto o la detenuta devono lavorare sottopagati per potere riprendere le relazioni sociali esterne.

Ma quello che ha bloccato qualsiasi velleità innovativa della Legge Gozzini è il controverso articolo 41 bis, disposizione che prevede un particolare regime per una particolare categoria di detenuti.

Per la rigidità delle sue prescrizioni questo regime è noto anche come “carcere duro”. L’articolo 41 bis della Legge Gozzini in sostanza prevede la sospensione delle norme ordinarie di carcerazione a favore delle norme “speciali” previste per le rivolte ed altre situazioni di emergenza.

Il “carcere duro” si applica a singoli detenuti che si sospetta possano comunicare con loro complici all’esterno del carcere, in genere condannati per delitti gravi e legati a contesti delinquenziali associativi, di matrice mafiosa, camorristica o terroristica.

Esso consiste nell’isolamento dagli altri detenuti in una cella singola, nel divieto di accesso agli spazi comuni del carcere, nell’ora d’aria in isolamento, nella limitazione dei colloqui con i familiari e con il proprio avvocato difensore, nel controllo della posta in uscita ed in entrata ed addirittura nella limitazione degli oggetti, come penne, quaderni, bottiglie di acqua in plastica, da tenere in cella.

Il regime di 41 bis applicato per periodi molto lunghi, anche a persone non condannate in via definitiva, è ritenuto da alcuni giuristi come incostituzionale, ma la Corte Costituzionale ne ha sempre confermato, nel suo insieme, la legittimità.

Tuttavia, nelle sentenze numero 349 del 28 luglio 1993, numero 357 del 19 luglio 1994 e numero 351 del 18 ottobre 1996, la Corte rileva come, pur entro il quadro di una legge giusta, ai detenuti vengano ugualmente riservati "trattamenti penali contrari al senso di umanità, non ispirati a finalità rieducativa ed, in particolare, non 'individualizzati' ma rivolti indiscriminatamente nei confronti di reclusi selezionati solo in base al titolo di reato".

Nel 1995 rappresentanti del “Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti visitarono le carceri italiane e conclusero che il regime detentivo italiano era il più duro tra tutti quelli presi in considerazione durante la visita ispettiva e, nelle restrizioni del 41 bis, la delegazione del Comitato Europeo vide gli estremi per definire i trattamenti come “inumani e degradanti”.

Sembrerebbe piuttosto logico, visto che i detenuti del 41 bis sono privati di tutti i programmi di attività e si trovano, essenzialmente, tagliati fuori dal mondo esterno. La durata prolungata delle restrizioni provoca effetti dannosi, che si traducono in alterazioni delle facoltà sociali e mentali, spesso irreversibili.

Nel 2000 la Corte Europea per di Diritti dell’Uomo venne poi chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità del 41 bis con la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali dei cittadini detenuti, sul quale emise un verdetto sostanzialmente positivo, limitandosi a censurare solo singoli aspetti attuativi.

Al contrario Amnesty International - e scusate se è poco - dal 2003 sostiene che il 41 bis sia un trattamento “crudele, inumano e degradante” del detenuto.

Addirittura nel 2007 un giudice degli Stati Uniti negò l'estradizione del boss mafioso Rosario Gambino, poiché a suo avviso il 41 bis è assimilabile alla tortura. E’ facilissimo sospettare il giudice americano corrotto dalla mafia ma, anche se così fosse, come si diceva, una questione di principio resta una questione di principio.

Certo, dal 2009 è possibile la revoca del “carcere duro” per decisione del ministro della giustizia nel caso in cui i presupposti che lo hanno giustificato siano venuti a mancare.

Il “carcere duro” può essere revocato e commutato negli arresti domiciliari per motivi di salute, anche se in genere provvedimenti del genere sono contestati dalle associazioni delle vittime del reato compiuto dall’interessato.

In ogni caso nel 2013 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittime le limitazioni in materia di colloqui con l'avvocato difensore.

Ce n’è abbastanza per discutere davvero o dovremo aspettare il prossimo “ricatto” anarchico?