Un'altra lingua, un'altra tradizione, un'altra cultura. Quella degli arbëreshë è una storia che parte da lontano, dall'Albania. Uno spaccato di umanità che conosce il peso del distacco, della lontananza, della forza che serve per dissotterrare le proprie radici dalla madre terra e trasferirle altrove. Dall'altra parte del mare, nella speranza che attecchiscano al più presto per sentire meno invadente la nostalgia di casa tra le faccende dell'umore.

Dal XV al XVIII secolo, diverse migrazioni portarono gruppi di albanesi a fondare nuovi villaggi o a ripopolare comunità esistenti nell'Italia meridionale. Per sfuggire all’invasione ottomana dell'Albania e in alcuni casi per prestare soccorso militare nella penisola italiana, col tempo gli albanesi finirono per scavalcare il mare affidando ad un'altra sponda il compito di ripararli ed accoglierli: è questa la prima pagina della storia dei paesi arbëreshë, piccole isole culturali e linguistiche appartenenti all'arcipelago dell'Arbëria. Ma un'esperienza vissuta da un grande popolo, per quanto avvincente possa essere, ha bisogno di essere scritta, raccontata, sostenuta e rinnovata per non essere consegnata al macero della dimenticanza.

A Caraffa, piccolo borgo dell'entroterra calabrese, l'insegnante Assunta Scerbo ha pensato di commissionare e poi donare alla figlia Greta una fedele riproduzione del costume arbëreshë della comunità della provincia di Catanzaro. Un abito realizzato pazientemente e con cura dalla stilista Lucia Bubba, anche lei di Caraffa. Un modo per avere cura, attenzione e riguardo per ciò che le passate generazioni hanno trasferito a quelle attuali, in una sorta di staffetta culturale. Ma non è finita qui. Il costume che Assunta ha voluto regalare alla figlia è arricchito infatti da una "linja", lunga veste bianca con caratteristici ricami, alquanto particolare: il capo è stato acquistato da Francesco, fratello di Greta, nella città albanese di Kruja. Un dono fraterno che rende ancora più stretto il legame tra l'identità rappresentata dall'abito e gli elementi materiali di cui è composto. Manca però ancora un pezzo nel racconto che ruota attorno al confezionamento del vestito. Ad offrire il prezioso tessuto di damasco, utilizzato per realizzare la gonna, è stata Virginia Scerbo, zia di Greta. Insomma, un vestito che porta su di sé non soltanto il peso di secoli di storia e di tradizioni ma anche una consapevole e condivisa azione di mantenimento della cultura arbëreshë attraverso la riproduzione di un vestito i cui dettagli non lasciano scampo allo stupore. 

In occasione della manifestazione delle "Vallje", svoltasi recentemente a Civita, una delegazione del comune di Caraffa su interessamento del delegato alla cultura e presidente del consiglio comunale Serena Notaro, in sinergia con il gruppo "Le stelle del folk", ha raggiunto la comunità incastonata ai piedi del Pollino. Ed è qui che, per la prima volta e davanti a centinaia di abitanti di paesi arbëreshë, Greta ha indossato il prezioso abito lasciando che il tradizionale e suggestivo costume raccontasse, anche attraverso il silenzio di una muta esposizione, le ragioni per cui è importante non disperdere l'unicità, la particolarità, la singolare bellezza di cui la diversità sa essere espressione.

Nella mischia frenetica del presente, in un mondo con lo sguardo e il pensiero rivolti quasi sempre al domani, in un periodo in cui la differenza tra vivere e correre si fa sempre più stretta, ricordare è un verbo poche volte declinato.
Nella fretta di disegnare il domani, finiamo per sbiadire i contorni del passato. Lasciamo esposta la storia all'usura del tempo e le esperienze faticosamente vissute da chi ci ha preceduto tendiamo a non ascoltarle più. Eppure è da lì che arriviamo: dai passi messi in fila dai nostri avi, dal sudore dei nostri padri, dalla culla delle nostre antiche comunità, dalla terra a cui dobbiamo le radici che ci legano al mondo e alla vita. Ricordare non è un obbligo. Ma è l'unico modo per non perdere aderenza con l'identità. 

Se, in barba al ritmo sostenuto dalla società attuale, rallentassimo per dare le spalle al futuro, in un inconsueto ribaltamento delle prospettive e delle abitudini, e guardassimo una volta tanto in faccia il passato, potremmo accorgerci dello straordinario patrimonio storico, linguistico e culturale ricevuto in eredità dalla storia e di cui possiamo, e forse dobbiamo, essere custodi. Magari un giorno non troppo lontano faremo come Assunta e capiremo quanto sia importante regalare non soltanto ciò che serve ma soprattutto ciò che conta.