Nell’area del Catanzarese si tramandano diversi racconti con protagoniste queste magiche creature. Le favole si concentrano sull'arroganza degli uomini, sull’importanza della natura e la furia che essa può scatenare quando non viene rispettata
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… “ti strugge il disio
di vive fonti e cercan gli occhi luce
d’orizzonti lontani;
se un nostalgico amore
d’azzurre solitudini e d’oblio
ti fa straniero ed esule nel mondo,
a noi ritornerai:
non son fantasmi vani
le fate del tuo monte.” …
Recitano così alcuni versi di Felice Mastroianni, poeta nato a Platania ed erede della poetica neo-greca, che dedicò la poesia Mi cantano le fate del mio monte alle figure magiche delle fate, che si dice abitino ancora il Reventino.
Le fate e i boschi del Reventino
Figure femminili leggere, bellissime e capricciose, conoscitrici della natura, in grado di volare e cambiare di forma. Sono queste alcune delle qualità delle fate, eredi delle ninfe della mitologia greca che abitavano nei pressi dei corsi d’acqua, le cui leggende arrivano fino a noi che le immaginiamo come spiriti che abitano boschi rendendoli incantati e pieni di magia.
Nel Reventino, prolungamento naturale della Sila Piccola, in provincia di Catanzaro, da sempre si tramandano storie e leggende che hanno come protagoniste le fate, che con i loro racconti ci insegnano l’importanza della natura, e la furia che essa può scatenare quando non viene rispettata. Una delle fate più note è senz’altro Gelsomina, della quale alcuni assicurano aver sentito il “richiamo” in aiuto dei luoghi che abita e della natura circostante.
Qui alcune, con le diverse varianti, che ancora oggi vivono tra i vicoli dei paesi intorno ai Monti del Reventino, che narrano di fate ancora presenti in quei luoghi da sempre ricchi di fascino e mistero.
Gelsomina e il regno dell’antico mulino nel bosco
Una notte, mentre erano fuori per procurarsi del cibo, alcune fate che abitavano il bosco trovarono una neonata abbandonata, e decisero di portarla nella loro grotta vicino alla cascata sotto un antico mulino. Addosso le trovarono un biglietto che diceva “Si chiama Gelsomina, prendetevi cura di lei”, e così fecero. La piccola crebbe con le fate ascoltando racconti e fiabe che le piacevano molto, e uscendo solo di notte per non farsi vedere dagli umani. Passarono gli anni e Gelsomina aveva raggiunto la maggiore età quando si confidò con una delle fatine: avrebbe voluto andare a scoprire il mondo dal quale proveniva, poiché non si sentiva una fata ma una donna, e perciò le fate decisero che una di loro l’avrebbe accompagnata, anche se questo avrebbe significato perdere il dono dell’immortalità.
Così la giovane e la fata sua confidente andarono verso la città, nascondendosi in un portone e aspettando passasse la notte per uscire e confondersi tra la gente. Ogni cosa, ogni situazione, era una sorpresa per la ragazza, che rimaneva affascinata dai comportamenti delle persone che vedeva per la prima volta.
Trovarono una casetta e vi si sistemarono, iniziando a fare parte della piccola comunità di Nicastro. Intanto Gelsomina, che diventava sempre più bella, era corteggiata da molti pretendenti e anche il figlio del principe Carlo D’Aquino, il principino Luigi, sentì parlare della ragazza e volle conoscerla, innamorandosi della sua semplicità e della sua bellezza, e le chiese di sposarlo. I due giovani, dopo le riluttanze iniziali da parte del principe, si sposarono nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, ed ebbero quattro bellissimi bambini vivendo felici. Ma la bontà della ormai principessa, che dedicava il suo tempo prodigandosi per i poveri e i sofferenti era troppa per il principe Luigi, che dopo averle proibito inutilmente di continuare ad aiutarli, la rinchiuse in una stanza del mulino di proprietà di famiglia, all’interno del bosco sopra il rione San Teodoro.
Lì rimase per molti anni, sostenuta solo dalla presenza del mugnaio e della mugnaia che si occupavano del mulino, che con gentilezza e pazienza le portavano da mangiare e avevano sempre una parola di conforto per lei. La sera erano le fatine a farle compagnia, raccontandole le favole che tanto le piacevano da bambina, facendo tornare a Gelsomina la voglia di tornare nel mondo delle fate lasciando per sempre quello degli umani, in cui viveva troppa cattiveria, e così la liberarono portandola con loro. Il mugnaio e sua moglie non vedendola, avvertirono il principe che pensò subito a loro come responsabili e decise di punirli: ordinò alle sue guardie di saccheggiare il mulino durante la notte per incolparli e imprigionarli nella torre del castello.
Quando il giorno dopo, trovando il mulino saccheggiato il mugnaio e sua moglie corsero ad avvertire il principe Luigi, lui sembrava quasi aspettarli, e subito dopo il racconto ordinò di farli incatenare e si fece accompagnare al mulino, mentre dietro si era formato un corteo che accompagnava i due poveri mulinai. Una volta arrivati però tutti si trovarono davanti uno spettacolo inimmaginabile: le macine giravano con vigore, e pur senza grano facevano uscire chili e chili di farina che traboccava dalle porte e dalle finestre. Aveva fatto tutto Gelsomina, che non aveva dimenticato il buon cuore dei due. Il principe non poté far altro che farli liberare e andarsene al castello, deluso. Quel giorno, domenica di Pasqua, tutti riuscirono a sfamarsi e a fare grande festa. Da allora Gelsomina, che vive ancora con le fate, non dimenticando di essere stata una madre, di notte esce e gira nei vicoli del rione entrando nelle case dalla serratura, e dà una carezza ai bambini che sono stati buoni, e una tirata di orecchie a quelli che sono stati cattivi.
Le fate del Monte Reventino e la chiesa
Alcune fate che vivevano sul monte Reventino, decisero di costruire una chiesetta nei pressi di una grotta, in un luogo suggestivo e dalla vista meravigliosa. Non potendosi manifestare agli abitanti del luogo, decisero di servirsi di un garzone, u monachìallu, un bambino, o una figura piccola di statura, in base alle versioni, per ricercare qualcuno che eseguisse i lavori e occuparsi di loro mentre avrebbero edificato la chiesa. Ogni giorno portava cibo buonissimo e preparato in modo così eccellente che i muratori diventarono sempre più curiosi di sapere chi ne fosse l’artefice, e iniziarono a chiedere insistentemente al povero ragazzo. Quest’ultimo però non cedeva alle loro domande curiose per non svelare il segreto delle fate alle quali aveva fatto un giuramento, e così non rispondeva. Diventati sempre più impazienti e non ricevendo nessuna risposta, decisero di uccidere il garzone.
Le fate addolorate, e senza l’aiuto del giovane, iniziarono a non cucinare più per loro il cibo come prima, e così i muratori abbandonarono la costruzione della chiesa. Arrabbiate contro gli assassini, le fate si tramutarono in pietra. Secondo un’altra versione fuggirono invece via dalla loro grotta dicendo: “Ritorneremo quando il monte Reventino si unirà con il monte Cocuzzo”, catena montuosa del Cosentino. La chiesetta sprofondò sotto terra proprio in quel punto denominato “a fossa da gghiesa”, la fossa della chiesa, e ancora oggi si dice che appoggiando l’orecchio al centro della fossa si può sentire il suono delle campane della chiesa incompiuta delle fate.
La fatina e la scarpetta
Secondo altri racconti la leggenda continua. Mentre abbandonavano il monte in cui avevano abitato per lungo tempo, e durante il quale erano venute a contatto loro malgrado con la crudeltà umana, la più piccola delle fate, che probabilmente portava come nome Gelsomina, mentre volava via con il resto delle fate, perse una delle sue scarpette, che cadde nel torrente Zumbino. La fatina cercò con tutte le sue forze di riprenderla ma senza riuscirci, poiché il torrente ricco d’acqua e dalla forza impetuosa, glielo impedì, e portò via la scarpetta che scomparve alla vista delle creature magiche. Arrabbiata per non essere riuscita a recuperarla, disperata lanciò una maledizione al torrente: “che tu non possa mai più trovare né riposo né pace!”. Da allora il fiume ha realmente più volte deviato il suo corso, provocando anche continue frane e alluvioni nei pressi di Nicastro, insegnando una profonda morale: il male provocato alla natura per mano dell’uomo, gli si ritorce sempre contro.
Secondo un altro racconto ancora, mentre le fate stavano volando via dopo aver scoperto la morte del loro garzone, tra la confusione e il dolore lasciarono indietro una fatina, più lenta proprio perché più piccola di tutte le altre. Alcuni abitanti di Platania, uno dei paesi del Reventino, sentendola lamentarsi si avvicinarono e la portarono a casa per prendersene cura, pensando fosse stata abbandonata. Non si sa con esattezza quanto tempo passò da quel momento, ma una notte, senza che nessuno se ne accorgesse, la fatina scomparve: le altre fate erano tornate a prenderla e volando la portarono con loro per ricongiungersi nuovamente in un altro luogo in mezzo alla natura che le avrebbe ospitate.
Le tre fate della grotta
Durante le serate in cui si “scucciavano e surache”, ovvero si toglievano dal loro involucro le surache, nome tipico per indicare i fagioli, e ci si riuniva in questo rituale di comunità, gli anziani del luogo amavano raccontare la storia di tre signore che vivevano in una grotta alle pendici del monte. Tra le loro qualità c’erano la bellezza e la saggezza, ed era grazie a quest’ultima se riuscivano a dispensare consigli ponderati e giusti a chiunque, essendo così le artefici dell’armonia e della pace che regnava tra le varie comunità del monte Reventino. Quando però le comunità iniziarono ad avere contrasti e cercarono di sottomettersi l'una con l’altra, le tre signore, che in realtà erano delle fate, con i loro poteri cercarono in tutti i modi di riportare l’equilibrio e la pace tra i vari villaggi, come era sempre stato per secoli e fino a quel momento. Nonostante la magia e i buoni propositi non riuscirono nel loro intento, e deluse dal comportamento degli esseri umani lasciarono la grotta loro dimora e se ne andarono per sempre “fino a quando il monte Reventino e il monte Cucuzzo si saranno uniti”.