È difficile spiegare a chi non è arbëreshë cosa significhi appartenere ad una storia lunga più di cinque secoli, prendere in eredità la direzione di un percorso inaugurato in Albania e giunto nel Mezzogiorno d'Italia. Essere arbëreshë vuol dire proseguire l'esperienza di un popolo arrivato dall'altra parte dello Ionio, in più migrazioni, e finito a considerare la terra di un'altra nazione il posto in cui costruire il proprio futuro. Chi non abita in Arbëria avverte meno la fragilità di ogni singola parola legata ad una parlata antica trasferita dal territorio albanese in Calabria, il suono leggero di un accento che rischia di essere spazzato via dal vento dell'indifferenza e del disinteresse per le proprie origini.

Oggi più di ieri, il patrimonio ereditato dalla terra delle Aquile e custodito dalle comunità italo-albanesi sparse nella nostra regione necessita di un importante lavoro di tutela e valorizzazione per evitare che il tempo della modernità, della globalizzazione, dell'omologazione spinga verso la dimenticanza il lascito di un passato tanto remoto quanto prezioso. È compito delle istituzioni promuovere iniziative finalizzate al mantenimento della cultura arbëreshë. Ma spetta anche alla sensibilità del singolo tenere viva la memoria e non lasciare che il silenzio metta a tacere la voce di un'identità, di una minoranza che ha diritto di cittadinanza alle nostre latitudini.

Grazie all'intraprendenza di Fausto Bubba, presidente dell'associazione "Caraffa Ime", quest'anno nella piccola comunità arbëreshë di Caraffa, nel catanzarese, il canto di buon auspicio della "strina" verrà eseguito in arbëreshë e non nel tipico dialetto calabrese. «C’è la volontà di mantenere accesa la fiammella delle nostre tradizioni arbëreshë con l’obiettivo di fare rivivere la nostra lingua così come ci è stata tramandata - commenta Bubba -. Il canto, il teatro, la musica, se intercettate, colpiscono direttamente il cuore, zhamera, e si riproducono nel nostro quotidiano. Insomma se ne parla».

La musica, la tonalità e il ritornello riprendono la vecchia e tradizionale strina calabrese che a Caraffa veniva interpretata dai cantori tra i vicoli della comunità e, al termine della quale, gli abitanti del paese erano ben lieti di offrire regali e frutti del lavoro agricolo.

Il nuovo componimento della strina arbëreshë risulta composto da quindici strofe. La maggior parte contengono appelli alla solidarietà, all’inclusione, all'integrazione, alla pace. Un pensiero è rivolto anche alla pandemia che ha messo in discussione le priorità di milioni di persone.

La strina arbëreshë sarà presentata nei prossimi giorni davanti la tradizionale Fokagina, il grande falò del periodo natalizio allestito in piazza Scanderbeg a Caraffa. Ad accompagnare i versi del brano saranno le note dell'organetto suonate da Nicolò Mauro, giovane studente appassionato di calcio e di tradizioni. Alla chitarra ci sarà Antonio Ferraina mentre a cantare le strofe della strina sarà Maria Arcuri, ndrikula Mara, che da diversi mesi è intenta a registrare e pubblicare sul web, grazie all'associazione "Caraffa ime", una serie di proverbi e detti nella parlata ereditata dall'Albania conquistando l'apprezzamento e l'affetto di molti concittadini sparsi per il mondo. Ad arricchire il coro saranno le voci di Antonina Mancuso, Maria Nesci, Maria Ferraina assieme a Lina Pilò. Presente all'evento sarà anche Vito Arcuri, autore di poesie e canti arbëreshë come "Gjuha te dese, lingua che muore”.

Il testo della strina nella parlata arbëreshë di Caraffa è stato curato e pensato da Fausto Bubba, da diversi anni impegnato nella valorizzazione del patrimonio culturale dei borghi albanofoni. Un impegno personale divenuto entusiasmo collettivo.