L’odore dei tessuti appena sforbiciati ha un vago odore di legno e di polvere. Sui tavoloni di legno massiccio, arriva la luce obliqua delle sei di sera. Sul piano sono sparsi righelli, matite, fogli sagomati, pezzetti di carta. C'è da fare una consegna al centro, toccherà lavorare anche di notte. Ad alzare la testa si vede il cielo spaccato in due fotogrammi, diviso dalle finestre che affacciano su quella parte che sarà chiamata la “città vecchia”. Il gessetto per marcare i bordi è accanto al puntaspilli, qualcuno chiama da fuori, non c’è il caos dei motori ma quello del mercato. Ritratto a seppia di una Cosenza degli anni Quaranta, tanto tempo fa.

Cominciamo da qui, da una veduta su una piccola città del Sud sorvegliata da un Castello. Ai suoi piedi ci sono gli spazi ampi delle strade poco battute, il corso arioso, le case basse, le drogherie, il sentore di unto dell’olio di colza buono per lubrificare le ruote dei carri. L’inizio di questa storia ci deve portare un po’ più indietro. Prima di quella stanzetta con le spagnolette di filo di cotone sparse ovunque e del ragazzo chino a cucire un orlo. È il 1933, siamo a Mendicino a due passi da Cosenza. Roma, Mina, le Sorelle Fontana, sono ancora lontanissime dal destino di un piccolo sarto del Sud che si dà molto da fare. Dunque, riavvolgiamo lo spago.

Le umili origini

Quando Eugenio Carbone nasce, il destino gli fa subito intendere che vivere non sarà un gioco da ragazzi per lui. A dieci anni la sua mamma muore e a casa non se la passano granché bene. Tante bocche da sfamare, pochi soldi. Anche se è solo un bambino, è pieno di voglia di fare. Ha delle idee in testa, idee creative. Gli piace guardare le donne che ricamano e cuciono. Lì a Mendicino, si campa di pane e seta. Un tempo c’erano le filande, le tessitrici con le mani magiche, e di quei luoghi, profumati di gelso, si raccontano ancora meraviglie.

Da ragazzino Eugenio inizia a osservare come si fa a trasformare una gonna in un paio di calzoni. È tempo di restrizioni, è tempo tra due guerre. Il superfluo è bandito, tutto va recuperato, trasformato e riutilizzato. Una tenda diventa un abito, una camicia si rattoppa all’infinito, passando da padre in figlio finché diventa un cencio. Il governo dice che si deve risparmiare su tutto, anche sui bottoni. Eugenio pianta le tende nella piccola sartoria di Ernesto Reda, ed è bravo il ragazzino, ci sa fare con ago e filo. La guerra intanto finisce e tutto profuma di rinascita. Dai vent’anni Carbone comincia ad accarezzare l’idea di costruire un’attività tutta sua. Cosenza ha un lungo corso con i negozi, le buone mercerie dove comprare la materia prima, la gente esce, si mette in mostra. Il centro può offrire clienti che vogliono il meglio ed Eugenio può darglielo. Le signore della buona società amano indossare abiti su misura, acquistare stoffe senza contare gli spicci. Si può fare. Eugenio trasloca.

Ed eccoci al secondo piano di quell’edificio con le due finestre e il tavolaccio ingombro. La prima sartoria “Carbone”. Eugenio non è solo. Al suo fianco, fin da quando era appena quattordicenne, c’è una ragazza che lo aiuta nel laboratorio e diventerà sua moglie. Sono felici. Il lavoro va bene, lui ha grandi idee e passa le notti a immaginare a come poter modellare un abito direttamente su un manichino limitando gli sprechi e accelerando sulle consegne. Ma c’è tempo per quel progetto futuro che avrà un nome: “Progettazione libera su manichino”, e farà scuola.

Il viaggio verso Roma

La coppia si sposa e nasce il primo figlio. Ma il destino tira spesso le briglie per rallentare le corse. Quel bambino è fragile e non gode di buona salute. Così la famiglia Carbone parte alla volta di Roma per farlo curare fino a che, nel 1963, lascia definitivamente la Calabria e si stabilisce nella Capitale.

L’incontro che cambierà la vita professionale di Eugenio Carbone è quello con Germana Marucelli, la stilista che anticiperà lo stile “a clessidra” di Dior. Il suo atelier aveva partecipato nel 1952 alla prima storica sfilata organizzata dal fondatore dell'alta moda italiana, Giovanni Battista Giorgini, e lei, che come Eugenio aveva cominciato ad appena 11 anni in una bottega sartoriale, lo prese sotto la sua ala.

 

L'incontro con Mina

Marucelli considerava quel giovane uno “sperimentatore” e non poteva che esserne attirata perché anche a lei piaceva rompere gli schemi e, soprattutto, battere sul campo la moda parigina che la faceva da padrona. È di quel periodo l’incontro tra Carbone e Mina. La cantante presentava all’epoca “Studio Uno” ma non aveva molto tempo per passare dall’atelier per le prove abito. Così un giorno Eugenio prepara l’occorrente e lo porta nella casa di Largo di Torre Argentina per farle vedere i modelli che ha pensato per lei. Altri ne realizza per Katina Ranieri e Rosanna Schiaffino. Il suo concetto di stile è rigoroso, semplice, elegantissimo. 

L'ingresso nell'atelier delle Sorelle Fontana

L’atelier Marucelli in piazza Mignanelli, diventa una sorta di crocevia culturale. Da lì passano Montale, Quasimodo, Ungaretti. Nel 1969, tra i rivolgimenti culturali che infiammano il Paese, Carbone entra nella scuderia delle Sorelle Fontana. Il suo primo incarico non è quello che si aspettava. È un lavoro meccanico e monotono, senza passione. Lui vuole fare lo stilista non l’operaio. Lo dice con coraggio a Micol Fontana che gli risponde: «Fammi vedere qualche disegno». E così da tecnico Carbone diventa creatore di modelli per la maison dove rimane per 30 anni.

I manichini che fecero scuola

Micol restò sempre una sorta di nume tutelare per lo stilista cosentino: fu madrina di una mostra pittorica di Carbone e a lui affida i seminari di progettazione su manichino. Negli anni Ottanta il creativo comincia a insegnare il suo metodo rivoluzionario allo IED di Roma, all’Accademia di Costume e Moda, alla scuola Diaz e alla Scuola San Giacomo. Negli anni Novanta scrive un trattato per aiutare i giovani stilisti, condividendo la sua esperienza di una vita. Avrebbe voluto fare di più ma il 25 ottobre del 2021 scompare all’età di 88 anni.

Il primo capitolo di un libro dedicato a lui, scritto dalla giornalista veneziana Daniela Rossi, di origini calabresi, ha vinto di recente il primo premio al Festival dell’Autobiografia di Anghiari e presto sarà dato alle stampe. Una vita lunga e piena di luce, quella di Eugenio Carbone, ripercorsa grazie al contributo di sua figlia Susy che ne tiene viva la memoria, intrecciando ricordi in filo di seta come facevano un tempo in quel luogo dove tanti anni fa questa storia è cominciata.