Con pazienza e amore, il 37enne ha scelto la lentezza dell’artigianato: «Viviamo nell’epoca del tutto e subito, questo lavoro insegna l’attesa». Il suo appello ai giovani: «Riconciliarsi con la natura è terapeutico, ogni tanto provate a disconnettervi»
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In un tempo in cui tutto corre veloce e si consuma in un clic, c’è ancora chi sceglie la lentezza, la memoria, la terra. Andrea Perrotta, 37 anni, è un giovane cestaio di Cerisano, piccolo borgo in provincia di Cosenza. La sua passione affonda le radici nella tradizione familiare, ma si nutre di ricerca, impegno e amore per il territorio. In questa intervista ci racconta il suo percorso, il valore dell’artigianato, il rapporto profondo con la natura e la sua missione: salvare la cesteria calabrese dall’oblio, restituendole dignità e futuro.
Un’arte di famiglia che diventa missione
Da dove trae origine questa passione “d’altri tempi”?
«La mia passione ha radici familiari: mio nonno materno era un cestaio, ed è proprio da lui che tutto è cominciato. Fin da bambino l’ho sempre visto intrecciare, e lo aiutavo nelle fasi preliminari, come la raccolta e la pulizia del materiale. All’epoca però ero troppo piccolo per soffermarmi sulla tecnica vera e propria.
Solo dopo la sua scomparsa ho realizzato il valore immenso del suo sapere e ho sentito il bisogno di non lasciarlo andare perduto. Così ho iniziato a studiare i suoi cesti, a osservare come erano fatti, e con pazienza ho imparato da autodidatta.
Oggi non mi limito più solo a praticare l’arte della cesteria, ma cerco anche di documentarla, di raccogliere testimonianze. Ho girato tutta la provincia di Cosenza, non solo la mia zona, alla ricerca degli ultimi cestai ancora attivi in Calabria. Non ho avuto la fortuna di imparare direttamente da mio nonno, ma proprio per questo sento il dovere di conservare e trasmettere questa conoscenza, affinché non vada perduta».
Una Calabria intrecciata di storie e materiali
La ricerca sul campo è parte integrante del suo percorso. L’intreccio, in fondo, non riguarda solo i materiali, ma anche le persone, le storie, i territori. «La Calabria è incredibilmente ricca di tecniche e forme diverse legate alla cesteria. Il mio primo passo è sempre visitare i musei locali: osservando i manufatti capisco se una determinata tecnica è tipica di una zona o se è presente altrove».
Da lì partono le indagini. «Quando trovo un indizio, cerco un contatto diretto: spesso le persone sono molto disponibili e felici di trasmettere il proprio sapere, temendo che vada perso. Altre volte, però, incontro una certa diffidenza, soprattutto tra gli anziani». E racconta un caso emblematico: «A Campana si realizzano cesti in paglia con motivi ispirati ai telai delle coperte silane: purtroppo l’ultima custode di questa tecnica ha scelto di non condividerla, e con lei rischia di scomparire per sempre una tradizione unica».
Tu sei laureato in storia: quanto hanno inciso i tuoi studi nel ripristino di quest'arte? La storia aiuta a dare valore al tempo e oggi di tempo sembra non essercene più.
«I miei studi storici sono stati fondamentali: mi hanno fornito le basi culturali e metodologiche per affrontare questa ricerca. Però ho voluto fare un passo in più rispetto al semplice lavoro etnografico e antropologico. Non mi limito a documentare, ma cerco di apprendere concretamente le tecniche, per poterle poi tramandare.
Purtroppo, con la scomparsa di chi custodisce questi saperi, la sola documentazione scritta non basta. Apprendere i gesti, le fasi della lavorazione, significa mantenere viva l’arte e renderla accessibile anche alle future generazioni. È questo, credo, il valore aggiunto del mio approccio: unire ricerca e pratica per dare continuità a una tradizione altrimenti destinata a scomparire».
Contro l’usa e getta: il tempo del cesto
Siamo nell'era della produzione in serie dove tutto è uguale, tutto standardizzato. Come fa un cesto dei tuoi a battere la concorrenza di un cesto di plastica? Qual è il valore odierno dell’artigianato? E che futuro immagini per questa tradizione?
«L’artigianato, oggi, fatica a resistere perché richiede tempo, pazienza e cura: elementi che mal si adattano alla logica del “tutto e subito” imposta dalla produzione industriale. Gli oggetti artigianali sono unici, fatti per durare, spesso con materiali naturali ed ecosostenibili. Un cesto, ad esempio, può durare una vita intera – ho conosciuto persone che ne conservavano ancora di ricevuti nel corredo negli anni ’30.
Al contrario, i prodotti industriali sono pensati per essere consumati e sostituiti in breve tempo: costano meno, ma si rompono presto. Così finiamo per spendere di più e inquinare di più.
Oggi si parla tanto di sostenibilità, ma spesso resta solo teoria: la realtà è ancora dominata dal consumismo.
Il lavoro artigianale, invece, è davvero green: non solo rispetta l’ambiente, ma anche le persone, perché valorizza il tempo, il sapere e l’identità locale. Purtroppo, le nuove generazioni non sono più abituate a questa mentalità: viviamo nell’epoca dell’usa e getta, dove si butta anche ciò che potrebbe essere riparato.
Il futuro dell’artigianato? Dipenderà dalla nostra capacità di riscoprirne il valore e trasmetterne il significato. Solo così potremo preservare non solo un mestiere, ma un’intera visione del mondo, più umana e sostenibile».
A proposito di mestieri lenti, i tempi di produzione di questi cesti sono appunto molto lunghi e le tecniche sono anche elaborate. Tu solitamente quanto impieghi a produrre un cesto? Quali sono gli step e i trucchi del mestiere?
«I tempi di realizzazione variano molto a seconda della forma, della tecnica e del materiale usato, ma spesso chi guarda solo il risultato finale non immagina quanto lavoro ci sia dietro. Prima di intrecciare, infatti, c’è una lunga fase preparatoria: i materiali vanno raccolti in natura, in periodi dell’anno spesso poco favorevoli, come a gennaio o a luglio (vedi il salice, che utilizza Andrea, ndr), e poi lavorati a mano, verga per verga. Per un solo cesto possono servire anche 500-600 verghe, ognuna da sbucciare singolarmente. È un lavoro lento e ripetitivo, quasi meditativo, che richiama il ciclo della vita: si parte da un centro e si cresce, giro dopo giro».
Riconciliarsi con la natura
La Calabria offre una straordinaria varietà di risorse naturali. In che modo questa ricchezza influisce sulle tecniche e sui materiali della cesteria nelle diverse zone della regione?
«Dico sempre che se esiste un paradiso in terra, è la Calabria. È una terra dura, ma anche generosa: offre tantissimo in termini di biodiversità, che da sola supera quella dell’intero territorio nazionale. Abbiamo paesaggi che vanno da quelli alpestri della Sila, con faggete e castagneti, fino alle zone mediterranee del crotonese, con campi di grano e pianure assolate.
Questa varietà di ambienti ha influenzato profondamente anche la cesteria: ogni area ha sviluppato una tradizione diversa, legata ai materiali disponibili sul territorio. In montagna si usano lamine di castagno, quercia o nocciolo; nelle zone cerealicole come il marchesato di Crotone, si lavora la paglia; nella Valle del Crati, ricca d’acqua, si intrecciano salice e canna; mentre lungo le coste tirreniche, come a Belmonte Calabro, si usa la stramma.
Questa diversità di tecniche, forme e materiali rende la cesteria calabrese un patrimonio unico in Italia. Nessun’altra regione ha una varietà così ampia. In questo senso, il nostro territorio è una risorsa immensa e insostituibile».
Il suo legame con la natura è profondo, quasi viscerale: «Oggi siamo abituati a cercare il benessere negli psicologi, nei percorsi terapeutici, ma spesso dimentichiamo quanto possa essere semplice ritrovare l’equilibrio riconciliandoci con la natura. Una passeggiata, il suono del vento tra gli alberi, il canto degli uccelli: sono cose semplici che aiutano a rilassarsi davvero.
Un tempo bastava parlare tra amici, sfogarsi, condividere momenti. Oggi, purtroppo, viviamo immersi nei social, sempre connessi ma sempre più soli. Anche all'interno delle famiglie il dialogo si è perso, sostituito da una comunicazione virtuale e fredda».
L’intreccio diventa così anche una forma di cura personale: «L’artigianato ha un ritmo lento e ripetitivo che rilassa: ogni gesto diventa una forma di meditazione. È il mio modo per scaricare le tensioni.
Vivo a Cerisano e mi sento fortunato ad abitare in un luogo così. Quando posso, resto qui tutto il giorno, perché nei luoghi chiusi mi sento soffocare. Amo la mia terra e spero di non essere costretto ad andarmene per cercare fortuna altrove.
Spesso si parla del Sud come di un luogo povero e abbandonato, ma se i calabresi che lavorano altrove tornassero a vivere qui, il Paese intero si ribalterebbe. Il Sud è la forza silenziosa che regge gran parte dell’Italia, dai medici agli insegnanti, dagli operai alle forze dell’ordine. Serve solo la volontà politica di investire seriamente in questa parte del Paese, cosa che purtroppo non accade da troppo tempo».
Infine, un messaggio alla sua generazione e un appello ai più giovani: «La mia generazione rappresenta un ponte tra passato e futuro. A loro dico che abbiamo il dovere di trasmettere i saperi ricevuti dai nonni. Ai più giovani, come te, direi di non farsi ingannare dall’apparenza. Viviamo in un’epoca in cui conta solo il "like", ma tutto questo è effimero. È importante riscoprire l’essere: capire chi si è davvero. La bellezza esteriore passa, mentre la cultura e il sapere restano e crescono con noi».