Vena di Maida è una piccola realtà dell'entroterra calabrese. Un raggruppamento di case e lampioni piazzato in mezzo all'Istmo di Catanzaro, tra il Golfo di Squillace e quello di Sant'Eufemia. In quel lembo di terra in cui è possibile, dall'alto, contenere in un solo sguardo il mar Ionio e le acque del Tirreno.

Un cartello posto all'ingresso del borgo accoglie i visitatori rivolgendo il proprio benvenuto in italiano e in arbëreshë, un'antica parlata ereditata dalle milizie albanesi giunte nell'Italia meridionale più di cinque secoli fa fondando diverse comunità, tra cui la stessa Vena. Anche la toponomastica nella piccola frazione arbëreshë è bilingue. E così le targhe sparse per le vie del centro non si limitano soltanto ad indicare il nome assegnato a ciascuna arteria ma svelano, nello stesso tempo, l'esistenza di un legame profondo tra la comunità venota e l'Albania. Un nodo mai sciolto, una relazione sentimentale che il mare rimasto di mezzo non è riuscito a separare ed il tempo non ha saputo corrodere.

Avere una storia differente dalle altre significa suscitare la curiosità di chi, quella storia, desidera conoscerla da vicino. Lingua, usi e soprattutto costumi hanno attirato a Vena numerosi scrittori, pittori ed artisti. Tra il '700 e l'800 diverse furono infatti le figure del mondo della cultura rimaste affascinate dalle ricchezze artistiche, storiche e tradizionali del borgo. Stupore ed apprezzamento tradotti poi a parole nei diari, nei racconti di viaggio, nelle missive scritte e destinate ad una sola partenza. Lo scrittore e viaggiatore britannico Henry Swinburne, lo scrittore e saggista scozzese Craufurd Tait Ramage, lo scrittore e chirurgo svizzero Horace de Rilliet si sono soffermati ad esempio nelle loro narrazioni sui dettagli, la bellezza e la maestosità dei costumi tradizionali indossati dai venoti in quel periodo. Ma non furono gli unici a farlo.

C'è un aneddoto che lega Alexandre Dumas alla comunità venota. Non si tratta di una storiella partorita dalla fantasia più feconda o di una testimonianza che, passando di bocca in bocca, perde per strada pezzi di verità. Piuttosto è un fatto messo nero su bianco dallo stesso drammaturgo francese. Nell'ottobre del 1835, Alexandre Dumas, divenuto celebre in tutto il mondo per aver scritto e pubblicato qualche anno più tardi "I Tre Moschettieri" e "Il conte di Montecristo", visitò Vena e parlò della sua esperienza in paese tra le pagine di alcuni racconti di viaggio. Dumas rimase affascinato dai particolari e dalla singolarità degli abiti indossati dalle donne di Vena. Il pittore Jadin, compagno di avventura dell'autore francese, decise di ritrarre i preziosi costumi per fissare, attraverso il disegno, i contorni di quell'antica e suggestiva estensione materiale della bellezza femminile.

Ad accompagnare Dumas e Jadin nel lungo cammino in Calabria c'era anche il fedele cane Milord che contribuì a rendere l'ingresso nella cittadina venota sfortunatamente memorabile. «La nostra entrata a Vena fu sinistra - scrive Dumas nel suo racconto - Milord cominciò con lo strangolare un gatto albanese, che non potendo, in coscienza, vista l'antichità della sua origine e la difficoltà di discutere il prezzo, valutare quanto un gatto italiano, siciliano, o calabrese, ci costò quattro carlini». Un risarcimento ritenuto dallo stesso Dumas un vero e proprio "salasso" e, per evitare ulteriori ed impreviste spese, Milord venne prontamente messo al guinzaglio. Nel frattempo le urla dei proprietari del gatto ucciso calamitarono l'attenzione degli abitanti. Fu così che Dumas e Jadin ebbero modo di osservare da vicino il costume femminile giornaliero e immaginare quanto potessero essere ancor più ricchi e decorati quelli indossati nelle occasioni di festa.

Spinti dalla curiosità e dal desiderio di levare di torno l'imbarazzo per una situazione poco felice, venne proposto alla padrona del gatto «che teneva teneramente il defunto tra le su braccia come se non potesse separarsi neanche dal suo cadavere» di essere risarcita con un indennizzo più elevato, pari ad una "piastra", a patto di indossare il costume più bello per farsi ritrarre dal pittore Jadin. La donna discusse a lungo e animatamente con il proprio marito prima di prendere una decisione. Ma a margine della negoziazione accettò l'invito dei forestieri. Così corse a casa per cambiarsi e dopo una trentina di minuti uscì dalla propria abitazione sfoggiando un abito impreziosito da ricami ed oro.

Una cascata di colori precipitò negli occhi dei viaggiatori, colpiti da quell'emozionante incontro con l'identità di un popolo giunto dall'altra parte del mare portando con sé tradizioni, suoni e nostalgia. Quello che Alexandre Dumas aveva di fronte non era un costume come tanti altri. La donna indossava il proprio abito da sposa. Il vestito più bello, tra le cose più care.