Da secoli l’Italia, per la sua posizione al centro del Mediterraneo, è stata meta di approdi per popoli in fuga, ma anche centro di commerci e scambi da e verso porti lontani. Ancor di più in Calabria, dove non solo sono passate dominazioni di diversi popoli, ma dove nei secoli scorsi numerosi sono stati coloro che dalla vicina Grecia, dall’Epiro, dall’Albania, e dal Piemonte, sono arrivati sulle nostre coste per sperare in una vita migliore, non diversamente da quanto ancora si continua a fare.

 

Ciò ha fatto sì che i popoli giunti fino a noi portassero con sé lingua, tradizioni e riti religiosi, che resistono ancora nonostante il passare del tempo.

 

In Calabria sono tre le minoranze etniche presenti, che parlano ancora la propria lingua e mantengono, seppur non tutte, alcune tradizioni volte a rimarcare quel legame con la madrepatria ancora presente: quella greka, quella arbëreshë e quella occitana.

La Calabria Grecanica: dove le nuove generazioni vogliono parlare il greko

Il Greco di Calabria, o Greko, o ancora Grecanico, come lo chiamano i non greci di Calabria, è parlato ancora oggi in alcuni paesi della zona grecanica in provincia di Reggio Calabria: Bova, Bova Marina, Condofuri, Roghudi, Melito Porto Salvo e Gallicianò, ma solo da poche centinaia di persone, per lo più anziane, rischiando così di scomparire.

 

Tre sono le principali ipotesi sulle origini del greko. La prima è quella della continuità, secondo la quale la lingua parlata nell’area grecanica deriverebbe direttamente dalle colonie greche presenti in Calabria nell’VIII secolo a.C.

 

In base ad una seconda ipotesi, durante la dominazione romana il greco scomparve dalla Calabria per essere sostituito dal latino, che venne poi rimpiazzato a sua volta dal greco dell’Impero Bizantino, tra il V e il VI secolo d.C., e quindi si pensa sia un’eredità dell’epoca bizantina.

 

Gallicianò

 

Oggi si fa spazio però anche una terza corrente, maggiormente avallata dai linguisti, che ingloberebbe entrambe le precedenti: il greko nascerebbe dalla Magna Grecia, continuando ad essere parlato anche durante la dominazione romana insieme al latino, e in un secondo momento insieme alla varietà romanza locale e all’italiano, fino ad arrivare a noi. Teoria questa sostenuta dalla persistenza di termini arcaici che non derivano dalla lingua bizantina, ma dal greco più antico, in quanto si tratta di una lingua permeabile, che quindi si lascia plasmare assorbendo termini di altre lingue. Inoltre a testimonianza dell’ultima supposizione esistono epigrafi e documenti che suggeriscono un bilinguismo greco-latino durante l’impero romano.

 

L’ultimo documento scritto in greko risale al 1572, quando il prete di Bova Garino Colucci scagliò un anatema contro il vescovo latino che riuscì a celebrare la prima messa in latino proprio nel paese. Nonostante infatti il Papa avesse provato più volte ad eliminare definitivamente il rito greco bizantino, Bova rimaneva l’ultima diocesi a seguire ancora tale procedura. Perciò quando il vescovo, di origine cipriota, riuscì a celebrare messa in latino, Colucci gli scagliò quello conosciuto come l’anatema dei 318 Padri della Chiesa, il peggior anatema della Chiesa Ortodossa, che rimane l’ultimo documento greko scritto con l’alfabeto greco.

 

La Fiumara di Amendolea

 

Da allora, diventando un linguaggio esclusivamente orale e non usato dalla Chiesa, che ne produceva i principali testi scritti, il greko perse il suo prestigio, iniziando ad essere percepito dagli stessi parlanti come retrogrado e privo di cultura, e diventando, nei primi decenni del ‘900 la lingua dei poveri e degli ignoranti. La situazione peggiorò durante il fascismo, quando veniva vietato di esprimersi in lingue diverse dall’italiano, e si fece sempre più strada la concezione che conoscere e parlare il grecanico fosse una vergogna. Si passa così a complete generazioni che rifiutano la lingua d’origine e insegnano ai propri figli a parlare solo in italiano, convinti che questo possa farli elevare culturalmente.

 

Solo negli ultimi anni la situazione sta un po’ cambiando, e le nuove generazioni, nipoti di coloro rimasti gli unici a parlare il greko, hanno cercato di non far perdere la lingua, organizzando varie iniziative. L’associazione Jalò Tu Vua, Bova Marina in greko, qualche anno fa ha creato “to ddomadi greko”, la settimana greka, una scuola intensiva di greco di Calabria di una settimana, ad agosto, che alla prima edizione si è vista arrivare 50 iscritti, tutti interessati ad apprendere le basi del greko. Durante la settimana si svolgono inoltre conferenze sulla cultura greka, escursioni, e momenti conviviali e di condivisione con gli anziani parlanti.

 

Al fine di salvaguardare il patrimonio linguistico e culturale dell’area, un gruppo di giovani dai 16 ai 30 anni ha ideato una raccolta fondi per il progetto “Se mi parli vivo”, per creare dei laboratori linguistici che non durino solo una settimana d’estate, ma tutto l’anno. Questo coinvolgendo un target di persone ampio, dai bambini agli adulti, per far sì che siano sempre di più le persone dell’area grecanica, e non solo, a parlare il greko, evitando così la sua estinzione.

 

Le comunità arbëreshë: dalla fuga alle tradizioni ancora vive

 

Le popolazioni di etnia albanese stanziatesi sui nostri territori sono originarie del sud dell’Albania e del nord della Grecia, ovvero della terra dell’Epiro, dove si parla un dialetto tosco. Arrivarono sulle nostre coste durante i vari esodi che si verificarono a partire dalla fine del XIV secolo, dopo la morte di Giorgio Castriota Skanderbeg, il condottiero che guidò la resistenza del popolo albanese contro l’avanzata dei Turchi.

 

Arrivati dopo essere fuggiti, si ritrovarono in zone “disperate”, dove era passata la pestilenza che aveva lasciato molti paesi abbandonati, e si stanziarono soprattutto intorno ai monasteri basiliani, ricevendo qualche terreno in cambio di manodopera.

 

Chiamati un tempo “gjegj” in modo dispregiativo, non tutti sanno che il termine deriva in realtà da un intercalare molto usato nel linguaggio quotidiano e familiare arbëreshë, con significato di “senti”, “ascolta”, “ubbidisci”.

 

La Calabria è la regione in cui ci sono più paesi di origine albanese, distribuiti nelle province di Cosenza, Catanzaro e Crotone, e nella maggior parte vengono ancora mantenuti la lingua e il rito greco bizantino, facente riferimento all’Eparca di Lungro. I paesi calabresi appartenenti all’Arberia, l’area geografica in cui gli albanesi si insediarono, sono per la maggior parte nella provincia di Cosenza, dove si contano ben 27 comuni: Acquaformosa, Castroregio, Cavallerizzo, Cerzeto, Cervicati, Civita, Eianina, Farneta, Falconara Albanese, Firmo, Frascineto, Lungro, Macchia Albanese, Marri, Mongrassano – dove la lingua è ormai scomparsa, come per Santa Caterina Albanese e Vaccarizzo – Plataci, San Basile, San Benedetto Ullano, San Cosmo Albanese, San Giacomo di Cerzeto, San Martino di Finita, Santa Sofia d'Epiro, Spezzano Albanese, San Demetrio Corone e San Giorgio Albanese. Solo tre, invece, i comuni arbëreshë nel Crotonese: Pallagorio, San Nicola dell'Alto e Carfizzi. Cinque in provincia di Catanzaro: Andali, Caraffa, Marcedusa, Vena di Maida e Zangarona. Anche Gizzeria è di origine arbëreshë, ma anche qui la lingua è del tutto scomparsa.

 

Civita

 

La lingua è ancora parlata nella maggior parte dei paesi, ed è per lo più simile tra tutti, anche se è stata ovviamente influenzata dal dialetto calabrese, ma sono sempre di meno i parlanti. Una delle motivazioni sono i “matrimoni misti”, che vedono uno dei coniugi non conoscere l’arbëreshë, situazione che spesso impedisce di insegnarlo ai propri figli poiché in famiglia viene sostituito dal dialetto calabrese. Inoltre, a più riprese, parlare la propria lingua d’origine era stato vietato, come ad esempio quando imposto dai baroni locali tra il ‘600 e il ‘700, o come durante il fascismo, quando c’era obbligo di parlare solo in lingua italiana. Inoltre nelle scuole, nonostante le minoranze etniche siano tutelate dalla legge 482 risalente al ‘99, non si insegna più la lingua, situazione che non ha che diminuito la possibilità, soprattutto per i bambini, di apprenderlo per poterlo parlare.

 

Ma non è solo la lingua da essere sopravvissuta al passare dei secoli. A resistere sono ancora alcuni riti particolari, alcuni conosciuti e altri meno. Uno è quello del matrimonio, molto differente da quello al quale siamo abituati, celebrato ancora oggi nelle chiese bizantine, piene di colori e simboli.

 

Prima di entrare c’è il rito del fidanzamento: davanti alla porta gli sposi salutano i rispettivi genitori, ed entrano in chiesa presentandosi davanti a Cristo già insieme. Avviene lo scambio degli anelli da parte dei testimoni, che con l’anello della sposa in una mano, e quello dello sposo nell’altra, senza mai lasciarli, li scambiano incrociando le braccia, per tre volte a simboleggiare la trinità, fino a rimettere gli anelli al dito giusto.

Falconara Albanese

 

Lo stesso procedimento è usato per le corone – fatte di fiori – dopo “l’incoronazione”, fatta poiché la sposa è regina e lo sposo è re, e davanti a Dio sono due regnanti alla pari. Altra particolarità è data dal giro intorno all’altare, anche questo come per gli anelli e le corone per tre volte, durante la quale viene cantata la Danza di Isaia. Gli sposi, stando dietro al sacerdote – chiamato Zoti o Padre in italiano – gli tengono la stola per unirsi anche a Dio. Al momento della comunione gli sposi morderanno, sempre per tre volte, lo stesso pane – solitamente un pezzetto di dolce – e berranno il vino dallo stesso calice, che alla fine della cerimonia verrà lanciato per terra per far sì che si rompa, come segno di indissolubilità: nessun’altro berrà dove loro hanno bevuto.

 

Ancora festeggiate nel mondo arbëreshë sono le Vallje, delle danze a forma di spirale durante le quali ci si tiene uniti grazie a un fazzoletto o per mano, o ancora tramite pezzi di corda, cantando le gesta di Skanderbeg. Si festeggiano ancora oggi il martedì dopo Pasqua, a Frascineto e a Civita, dove si riuniscono anche altri paesi albofoni calabresi, i quali partecipano indossando ognuno il proprio vestito tradizionale.

 

In disuso è andata invece il rito della Motërmat (sorellanza) o Vllamja (fratellanza): ci si univa, durante una domenica dopo la funzione religiosa, e si formava una fila di mani su una grande croce, e dandosi un pizzicotto si diceva “mia sorella – o mio fratello – sei tu”. Si baciava poi il crocifisso giurando alleanza alla patria, e venivano mangiati dei biscotti intrecciati che si spezzavano in segno di convivialità. Da quel momento era abitudine rivolgersi alle persone che avevano partecipato, con “sorella” o “fratello” seguito dal nome della persona. Rito, questo, svolto a Falconara fino agli anni ’50.

 

L’unica comunità Occitana in Calabria a Guardia Piemontese

 

Gli Occitani s’insediarono a Guardia tra il XII e il XIII secolo arrivando dal Piemonte. Di tutte le colonie valdesi presenti in Calabria, l’unica a sopravvivere fu quella di Guardia Piemontese, che racchiudeva tutti coloro che erano fuggiti dal massacro per opera della Santa Inquisizione, costretti a convertirsi dal protestantesimo al cattolicesimo e col divieto di parlare in occitano.

 

Classificata tra le lingue romanze o neolatine, l’occitano si sviluppò alla fine dell’impero romano ed è parlato nel sud della Francia, in Val d’Aran in Catalogna, nelle valli piemontesi, in una piccola area della Liguria e a Guardia Piemontese.

Guardia Piemontese

 

Il termine si deve a Dante Alighieri, che nel De vulgari eloquentia del 1303 classificò per primo le parlate individuando tre idiomi: la lingua del sì, ovvero l’italiano, la lingua d’oil, o francese, e la lingua d’oc, l’occitano, l’unica lingua “straniera” presente nella Divina Commedia, a parte qualche parola in latino.

 

Il XXVI canto del Purgatorio finisce infatti con 8 versi in lingua d’oc, un omaggio alla lingua e ai valori cantati dai trovatori, la cui poesia in lingua doc è stata la prima in Europa ad essere scritta in lingua volgare, la lingua del popolo.

 

Oggi ci sono circa 250 le persone, per lo più anziane, che parlano il Guardiolo, la variante di occitano che si parla a Guardia Piemontese. Presenta alcune influenze della lingua francese, e si distingue dagli altri occitani per alcune parole plasmate nei secoli dall’influenza del dialetto calabrese. Come lingua rischia però di scomparire proprio perché i parlanti non sono molti. Anche se nella scuola primaria il Guardiolo è tra le materie curriculari, e i bambini imparano quindi fin da piccoli ad esprimersi in occitano.

 

Oltre alla lingua, rimane ancora in eredità alla comunità occitana l’abito tradizionale, usato fino all’inizio degli anni ’90 anche durante i matrimoni o alle feste. Alcuni sono conservati presso il Museo dei Valdesi, donato dalle famiglie più benestanti che ne avevano due, oppure dalle donne che decidevano di intraprendere la vita monacale, o ancora da chi andava in cerca di una vita migliore emigrando in America. Era tradizione che le donne venissero seppellite con addosso il vestito da sposa o della festa, che per questo andava “perduto”.

 

A rendere particolare l’abito Guardiolo è il “penaglio”, un copricapo dalla forma che ricorda un cuore, che richiama quelli rinascimentali. Si pensava che questo, per la sua rigidità, fosse una punizione, una penitenza, ma una seconda teoria sfata questa convinzione. Pare infatti che portarlo fosse un vezzo che valorizzava la figura e facesse sentire le donne più eleganti. Veniva indossato per tutto il giorno, e da alcune tenuto anche la notte e sistemato al mattino. Le mani erano sempre coperte sotto il grembiule ricamato.

 

L’abito Guardiolo rappresenta oggi l’orgoglio della riscoperta dell’identità storica e culturale di Guardia Piemontese.

A rivestire grande importanza rimangono alcuni piatti tipici, poi diffusisi anche nel resto della Calabria, ma originari di Guardia. È il caso della polenta, riadattata con i finocchietti selvatici, fatta principalmente con le verdure, ma arricchita talvolta anche con pezzi di carne di maiale. Piatti tipici guardioli sono la pasta e fagioli con le polpette di ricotta, e il tortello di patate.

 

Tra i dolci più usati ci sono i taralli con la glassa, presenti ancora oggi durante i festeggiamenti delle cerimonie, e i dolci degli sposi, dolci da inzuppare con sopra gli zuccherini colorati, ancora usati durante i matrimoni. Delle minoranze linguistiche presenti in Calabria, quella occitana è una minoranza tra le minoranze.