Si narra che tra i boschi della frazione arbëreshë di Lamezia Terme abitassero misteriose creature. L'affronto subito da un contadino e la “jestima” di cui ancora oggi si parla
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C'è una Calabria che non ha paura di allontanarsi dalla realtà, che non circoscrive la propria libertà nel perimetro del rigore e dell'attendibilità scientifica. È la Calabria delle leggende, delle storie misteriose ereditate dal passato, delle maledizioni che esercitano il loro funesto compito su chi prende alla leggera le indicazioni della tradizione e non presta ascolto alle voci che si alzano dal territorio. C'è una Calabria fatta di favole raccontate per affrettare l'arrivo del sonno e di spaventose vicende che, al contrario, tengono svegli tutta la notte impedendo alla stanchezza di prendere il sopravvento sulla paura.
A Zangarona, frazione arbëreshë della città di Lamezia Terme, la leggenda delle "Fate delle Grutte" conferma l'inclinazione del passato a sbiadire talvolta il confine tra ciò che è vero e ciò che è falso mischiando la concretezza di un insegnamento con l'immaginazione più svincolata. Secondo la leggenda, tra i boschi della piccola comunità di origine albanese incastonata nell'entroterra calabrese, dimoravano in alcune grotte delle fate. Non era difficile vederle ballare, divertirsi in mezzo alla natura più incontaminata. Avvicinarsi al loro cospetto non era neppure molto complicato. Si racconta che le magiche fanciulle fossero generose nei riguardi di chiunque le trattasse con gentilezza ed affetto ma, nello stesso tempo, spietate verso chi osava mancare loro di rispetto. Così capitava che dispensassero regali e, poco dopo, le più temibili sciagure. Non erano loro d'altronde a determinare l'atteggiamento da impiegare verso il prossimo ma era il comportamento degli uomini e delle donne che andavano loro incontro ad orientare il trattamento da riservare. Si racconta che una volta un contadino, al rientro dal lavoro nei campi, si fermò ad osservare le fate impegnate a ballare. Felici e contente, lasciavano che la vita passasse attraverso i movimenti del corpo. Danzavano mostrando al mondo i loro sorrisi. Tra un ballo e un altro, una fata perse nella foga un anello. Fu il contadino, senza farsi notare, a raccoglierlo e a portarlo via con sé. Rientrato a casa decise di regalarlo alla fidanzata. Un pensiero, un'idea, che però si rivelò presto infelice. La coppia di innamorati infatti fissò la data delle nozze per coronare il sogno di un'esistenza da trascorrere assieme, affidando ad un "per sempre" l'illusione che l'amore potesse battere il tempo e le sue scadenze. In occasione del matrimonio, rompendo con la tradizione, il contadino non invitò e non riservò alcun posto alle fate per la cerimonia temendo che potessero accorgersi del furto dell'anello. Le magiche donzelle, venute a conoscenza del torto subito, lanciarono prontamente una tremenda maledizione ai danni del contadino e della sua famiglia ma anche su coloro che avessero posseduto l'anello nei tempi a seguire. Soltanto la riconsegna della refurtiva alle fate avrebbe interrotto il corso della sfortuna e disinnescato la "jestima" lanciata.
Il messaggio che si può trarre dal racconto è che anche nel mondo fatato per mettere in sicurezza il presente e al riparo il domani non basta la buona volontà. Serve l'azione. Quella che ripristina la situazione precedente all'errore compiuto, che riserva sui colpevoli la carezza del perdono e che fa tornare tutto in equilibrio. Nel punto esatto in cui la realtà incontra la fantasia.