Il fratello Stefano scrive al ministro della Giustizia Bonafede e al Capo dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini affinché sia fatta luce sulla morte dell'educatore carcerario ad Opera avvenuta l'11 aprile 1990
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Di seguito la lettera di Stefano Mormile indirizzata al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e al capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Francesco Basentini in cui chiede di far luce sull’omicidio del fratello Umberto Mormile, educatore carcerario ad Opera, ucciso l’11 aprile del 1990 in un agguato mafioso.
«Signor Ministro, Signor Capo Dipartimento,
mi chiamo Stefano Mormile, sono, anzi, ero il fratello di Umberto Mormile, educatore carcerario ad Opera, ucciso l’11 aprile del 1990 in un agguato mafioso mentre si recava al lavoro. La storia di Umberto, come la storia della sua compagna, Armida Miserere, direttrice carceraria morta suicida (?!) nell’aprile del 2003, le potete conoscere leggendo la copiosa documentazione giornalistica diffusa in questi anni, compresi alcuni libri (da ultimo, la Repubblica delle stragi, curato da Salvatore Borsellino) e addirittura un film (come il vento, del regista Marco Simon Puccioni, del 2013). Perciò non ve le racconto, sarei di parte, troppo coinvolto, e poi sono certo che le conosciate entrambe, anche perché parliamo di due lavoratori della Giustizia, delle carceri in particolare, che voi rappresentate e amministrate. A Voi chiedo altro.
Umberto Mormile, com’e ormai accertato, è stato ucciso perché si era accorto degli incontri proibiti che avvenivano all’interno del carcere tra personaggi appartenenti ai servizi segreti e boss della criminalità. Incontri che non solo non venivano registrati, ma producevano anche indecenti privilegi ai boss ai quali venivano concessi financo dei permessi premio. Inaudito!»
Il “protocollo farfalla”
«Umberto fu eliminato affinché non rivelasse questo indicibile e spregevole scambio, o forse è meglio chiamarlo patto, come altri patti ignobili che sono costati la vita ad altri servitori dello Stato. Del resto, gli incontri proibiti in carcere, costati la vita a Umberto, altro non erano che un “protocollo farfalla” ante litteram, lo scandalo scoperto quasi casualmente nel 2004 e subito soffocato dal “segreto di stato”, pietra tombale di tutte le principali vicende di questo Paese che noi cittadini ingenui non dobbiamo assolutamente conoscere.
Torniamo però a Umberto; costituiva una minaccia perché non solo sapeva di quegli incontri, ma aveva il torto di essere onesto, non potevano comprarlo, solo eliminarlo. E così avvenne. A deciderne l’eliminazione fu il “consorzio”, ovvero, l’organismo di vertice dell’organizzazione criminale lombarda, costituito alla fine degli anni ’80 per governare e controllare tutti i traffici illegali (droga, appalti, ecc.). Insomma, come descritto anche dagli inquirenti che hanno raccolto prove e testimonianze, il consorzio è “un grumo di interessi politici ed economici attorno a cui ruotano servizi segreti deviati, massoni vicini a Gelli e organizzazioni criminali”.
Armida Miserere fu l’integerrima direttrice carceraria che, dopo la morte del suo compagno, dedicò la sua vita a cercare i colpevoli veri dell’omicidio di Umberto. Non diede tregua agli inquirenti, ai vertici del Dap, a chiunque avesse o potesse avere elementi utili a provare quello che lei già sapeva e che si sarebbe poi rivelato esatto. E forse fu proprio per allontanarla da quella sua ostinata e pericolosa ricerca della verità, che l'Amministrazione carceraria cominciò a mandarla ovunque ci fossero problemi e pericoli. Così Armisa Miserere, la direttrice dura e inflessibile, fu spedita a Pianosa, all'Ucciardone, a Voghera, Sulmona, lei sola a fronteggiare proteste, rivolte, insomma, a dipanare tutte le matasse che, all’epoca, si annodavano attorno al carcere. In cambio ottenne minacce, ritorsioni, calunnie, intimidazioni e attentati.
Delle due vicende, l’Amministrazione della Giustizia non s’è mai occupata, anzi, nel caso di Umberto ha fatto peggio, ostacolando di fatto le indagini».
«Ogni dipendente della Giustizia è in pericolo»
«Signor Ministro e signor Capo Dipartimento, so bene che i Vostri incarichi sono recenti, non potete certamente rispondere di ciò che hanno fatto o non hanno fatto i Vostri predecessori. Adesso però ci siete Voi.
Lei, signor Ministro, negli ultimi due anni, ha pregevolmente partecipato alle celebrazioni per l’anniversario della strage di Via D’Amelio, mostrando sensibilità e declinando impegno a combattere le mafie, anche e soprattutto quella di Stato. Ebbene, Umberto Mormile è stato ucciso da quelle mafie, anche e soprattutto da quella di Sato. Si sapeva già dal 2004, quando, per l’omicidio di Umberto Mormile, è stata emessa la sentenza d’appello dal tribunale di Milano che, seppure ha mandato assolta, incomprensibilmente, la mafia di Stato, ha comunque certificato quel “protocollo farfalla” come causa della sua morte. Più recentemente, il Tribunale di Reggio Calabria sta provvedendo in qualche modo a colmare le “lacune investigative” di Milano, attraverso le copiose e convergenti testimonianze rese, ripetute a dibattimento e riscontrate dagli inquirenti che svelano senza ombra di dubbio alcuno che il consorzio esisteva (esiste ?), aveva deliberato l’eliminazione immediata di quell’educatore che ficcava il naso e minacciava di rivelare quello che non si poteva rivelare.
Signor Ministro e signor Capo Dipartimento, credo che sia giunto il momento che l’Amministrazione intervenga.
Ad esempio, delle scuse dell'Amministrazione a Daniela Mormile, figlia di Umberto, e a Domenico Miserere, fratello di Armida, seppur tardive, non farebbero male.
Quello che chiedo io è invece una azione inequivoca da parte Vostra: un dipendente della Giustizia è stato ucciso per svolgere il proprio lavoro; finché non sarà fatta piena luce sulle cause e le circostanze che hanno determinato quella morte, ogni dipendente della Giustizia è in pericolo, perché non si può escludere che quel “sistema” sia ancora attivo.
Penso anche che sia giusto e necessario che l’Amministrazione si costituisca parte in causa nel processo di Reggio Calabria, non solo perché in quel processo si racconta anche dell’uccisione di Umberto Mormile, ma perché quei racconti aprono squarci terribili nell’ambiente carcerario di Opera e non solo. Ecco quei fatti raccontati e mai indagati, credo sia necessario accertarli, anche adesso, a distanza di anni, attraverso inchieste interne per verificare che quanto avvenuto in passato non avvenga più.
Signor Ministro e Signor Capo Dipartimento,
sono passati tanti anni dalla morte di due eccellenti servitori dello Stato. Purtroppo, non sono stati gli unici servitori dello Stato ad essere sacrificati, tanti altri, troppi, sono stati uccisi con la terribile sensazione che lo Stato che hanno lealmente servito li abbia traditi in nome di un “interesse superiore” che, ad oggi, non è dato sapere. Spesso, su quei servitori, lo Stato si è addirittura accanito, facendo o permettendo che si facesse scempio della loro memoria attraverso azioni di palese depistaggio, calunnia, diffamazione. Adesso lo Stato, almeno per quanto riguarda l’Amministrazione della Giustizia, lo rappresentate Voi, spetta a Voi servire la Giustizia e lo Stato con lealtà, ed è quello che Vi chiederebbero Armida ed Umberto».