«Vedevo le future generazioni iraniane occupare orgogliosamente il posto che spettava loro nella grande famiglia umana, assumendo degnamente le proprie responsabilità. Speravo di vedere diradate per sempre le tenebre medievali da cui l'Iran era stato strappato da appena mezzo secolo e che s'instaurasse il regno di quella luce che è l'essenza stessa della civiltà e della cultura iraniane». (Mohammad Reza Pahlavi)

Le manifestazioni nate per protestare contro la morte di Mesha Amini, giovane donna morta dopo l'arresto eseguito dalla “Polizia Morale” per aver indossato in modo non corretto il velo, sono continuate per perorare la causa di migliaia di altre donne che lottano per la propria emancipazione. Dall’inizio degli scontri donne e uomini che vorrebbero una rinascita dell’Iran hanno affrontato a viso scoperto e con le sole forze a loro disposizione una lotta impari contro un governo autoritario e fondamentalista.

I pallini di gomma esistevano dall’inizio delle proteste, ma sulle gambe e le spalle dei manifestanti facevano meno rumore di quelli di oggi, che invece vengono direzionati sul ventre delle donne per renderle sterili e ad altezza viso per chiunque si schieri con chi scende in piazza, per marchiare generazioni future e possibili sostenitori scomodi ad un regime che vorrebbe il bavaglio a vita.

Ma ad oggi le proteste montano ancor più feroci di prima, perché oltre ai diritti violati delle donne, si parla di più di 470 morti durante le manifestazioni, senza contare le prime esecuzioni stile Daha’sh. Con la differenza che in Iran ci troviamo in un mondo shiita e non sunnita, ma pur sempre due facce della stessa medaglia shariatica.

E dopo Mesha Amini e le centinaia di ragazze soppresse, adesso è il momento dei giovani uomini manifestanti tra cui anche minorenni, che hanno avuto la sola colpa di difendere una libertà che purtroppo è solo idealizzata. Così, dopo la rabbia pubblica dettata dalla morte di Mesha, sta seguendo un’ancora più furibonda rabbia esplosa per l'esecuzione di Mohsen Shekari, giovane manifestante arrestato, processato e condannato a morte per "guerra contro Dio".

Dall’impiccagione del 23enne, diverse città del Paese sono state teatro di rivolte contro la Repubblica islamica. I locali raccontano che i pasdaran hanno imposto un coprifuoco, oltre al quale chi si trova per strada sarà trattato come traditore del regime e arrestato di conseguenza come prigioniero politico. Voci locali che preferiscono rimanere anonime, raccontano di come le informazioni arrivino a metà.

Ma nonostante la diffusa interruzione di Internet e le severe restrizioni sulle informazioni, i video hanno raggiunto il cyberspazio, mostrando al mondo intero una realtà che va ben oltre l’immaginabile, così come l’attuale conflitto russo-ucraino ci sta insegnando che la realtà supera di gran lunga la finzione cinematografica. Si passa dalle rivolte che si tengono in piccole e grandi città, tra cui Teheran, Tabriz, Isfahan, Ahvaz, Karaj, fino a varcare il confine ed estendersi ad alcune città curde.  

Il regime estremista della Repubblica Islamica dell’Iran, guidata dal Presidente Ebrahim Raisi e dall’Ayatollah Seyyed Hoseyni Alì Khamenei, non si può permettere una sconfitta e così per sedare la giustificabile ira della folla, hanno “strategicamente” pensato di annunciare l’abolizione della Ghasht Ershad (la polizia morale iraniana).

Non è noto se la chiusura della pattuglia di guida significhi lo smantellamento della polizia di sicurezza morale nel suo complesso, ma fin dai primi giorni delle proteste è stata rimossa l'insegna del quartier generale della polizia di sicurezza morale in Ministerial Street a Teheran e sostituito dal nome della polizia di pubblica sicurezza. Ma ciò che dovrebbe essere tenuto a mente è che Ershad Patrol fa parte della storia della sicurezza morale, la così detta polizia invisibile.

Così il 5 dicembre scorso l'Iran ha annunciato di aver cancellato la “polizia morale”, ma buona parte degli iraniani in patria e fuori confine l’hanno immediatamente interpretata come una manovra per assopire la rabbia delle proteste per farle fallire.

Così Mohammad Jaafar Montazeri, pubblico ministero in Iran, ha annunciato, pensando di sorprendere l'opinione pubblica del suo paese, lo scioglimento della polizia morale. Il tutto facendolo apparire come un epocale e aspettato cambiamento, ma che non era previsto così in fretta. Una legge che nessuno con la visione khomeneista potrebbe accettare e avvallare, perché farebbe cadere uno dei capisaldi della Rivoluzione islamica che rovesciò il vecchio Impero Pahlavi.

Ma per rendere la cosa “visibile” agli occhi ma non realizzabile nel concreto, anche in via Vizar a Teheran l’insegna davanti alla struttura della Polizia Morale è cambiata in tempi rapidi, passando da “Polizia Morale” a “Polizia di pubblica sicurezza”. Parlando a spizzichi e bocconi con i locali, che ormai non hanno più molto accesso ad internet, neppure con le VPN (linee protette) si evince che vengono fatti dei posti blocco dove alle persone fermate vengono controllati cellulari e social, per verificare possibili connessioni con le manifestazioni. Le donne e gli uomini sono costretti a “correre ai rimedi” ogni volta che escono di casa e anche riuscire a mettersi in contatto con le ambasciate per eventuali passaporti è diventato quasi impossibile.

Si vocifera che anche alcuni Mullah, si stiano schierando contro all’Ayatollah Khamenei, poiché non sembrano accettare la violenza che si sta utilizzando contro le folle, senza tralasciare, il non risibile fatto, che qualcuno appartenente alla loro cerchia familiare possa essere coinvolto nelle proteste. La nuova generazione ha attivato un processo irreversibile, che sta coinvolgendo ad oggi anche quella porzione di popolazione più matura e vecchio stampo. I più old style chiedono il rispetto delle idee, senza negare la propria provenienza. Si chiede dialogo e emancipazione culturale, la folla chiede di uscire dall’oscurantismo di una sharia estremista e senza prospettive.

A detta di chi è riuscito ad andare via, la popolazione sta cercando aiuto e non tornerà in dietro, sfiderà il regime fino alla carneficina. «La popolazione è intrisa di spie pagate dal governo solo per riportare ciò che si sente, quali sono gli umori che dilagano e da chi vengono portati avanti. Per questo fino ad oggi c’è stato sempre, anche tra i ragazzi, il timore di parlare e manifestare le proprie idee».

Sembra che la maggior parte di loro sia nullafacente o legata a famiglie al comando e che sotto mentite spoglie di studenti si camuffano tra la folla. “Non hanno alcuna qualifica di polizia o altro, sono solamente pagati per fare un report settimanale o mensile al “caporale” di zona” mi viene detto.

Nel quartiere Sattar Khan di Teheran, dove viveva Mohsen Shekari, le proteste popolari sono continuate nonostante la dura repressione della sicurezza. Una delle assurde accuse lanciate a questo manifestante giustiziato era quella di fare blocchi per la strada ostacolando la sicurezza. Il 10 dicembre i manifestanti a Sattar Khan hanno acceso fuochi e chiuso le strade, scandendo slogan come “Khamenei è un assassino, siamo tutti Mohsen”, ma la frase ancor più agghiacciante e pronunciata con accorato sentimento è stata “Se una persona viene uccisa, mille persone la seguiranno”.

In quella zona e non solo, le forze repressive hanno attaccato e sparato durante la marcia della gente nel quartiere del 23enne impiccato. Sembra che gli agenti definiti “repressivi” e le milizie in motocicletta abbiano sparato proiettili di gomma a tutti i passanti sul marciapiede, colpendo indistintamente bambini, anziani e finanche persone in coda per la spesa, gridando: “Perderete le vostre case”.

Diversi quartieri di Teheran sono stati teatro di continue rivolte. In quelli di Darband e Poonk nella Capitale, le persone in protesta hanno intonato slogan durante la notte come “Morte al dittatore”. Contemporaneamente i giovani dei quartieri della Capitale iraniana hanno chiesto la solidarietà degli iraniani nel mondo: «Vi chiediamo di riunirvi sotto un'unica bandiera per la soluzione e il meccanismo che definiranno l'orizzonte futuro della vittoria. Iniziate il percorso di solidarietà per la libertà dell'Iran, per rispetto del sangue puro che si è sacrificato per questo obiettivo».

Storie di vite rubate

Nel mentre la “forca” la rischiano numerosi giovani, come il rapper curdo di Kermanshahi Saman Yasin. Un giovane di 27 anni che da subito si è schierato, con un video, a favore della causa di Mesha Amini. Il suo avvocato, Mohammad Ismail Beigi, proprio ieri ha scritto sulla sua pagina Telegram che non gli è stato permesso di leggere il file, poiché gli è stato detto che è un incartamento confidenziale.

«Mercoledì scorso, quando sono andato a leggere i capi di imputazione, non mi hanno permesso di farlo. Dicendomi che il caso è riservato».

L'agenzia di stampa ufficiale della Magistratura (Mizan) ha reso note le accuse a carico di Saman Yasin, che a loro dire sarebbero legate ad un combattimento con una fibia, 3 colpi di arma e assembramento e collusione con l'intento di commettere un reato contro la sicurezza del Paese.

Queste accuse, tutte da verificare, basterebbero per giustificare la probabile e futura impiccagione del ragazzo.

Il suo avvocato ha detto che il verdetto del tribunale di primo grado è stato emesso, ma la famiglia e l'avvocato hanno presentato ricorso e il caso è stato ora deferito alla Corte Suprema per l'esame, chiedendo che il caso venga svincolato dalla “confidenzialità” in modo da essere trattato come un semplice caso.

Così ad oggi anche la leonessa Kausar viene condannata a morte, e nel mentre l’agenzia di stampa Mizan, legata alla magistratura annuncia l’impiccagione di un altro giovane arrestato durante le manifestazioni e dal nome Majid Reza Rahnavard, impiccato in pubblico a Mashhad.

 

Dojam è un'autentica parola persiana, che significa qualcuno che è arrabbiato e triste allo stesso tempo.

Come molti di noi ora...