Il segretario frena sul possibile accordo di un governo tecnico con i pentastellati avanzato dall'ex leader che pensa già ad una scissione e prepara l’azione civile. Divisioni nel partito sulla linea da seguire
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In uno scenario politico in cui regna sovrana la crisi di governo, le crepe nel Pd si fanno sempre più profonde lasciando presagire una vera e propria scissione: la linea ufficiale del segretario Nicola Zingaretti resta quella di andare alle urne (riponendo nello stesso tempo la fiducia nella scelta del Capo dello Stato con un governo tecnico) e anche tra i renziani la proposta di Matteo Renzi per un governo di transizione con il M5s viene liquidata da qualcuno come «poco più che fantascienza».
Mentre Matteo Salvini chiede di andare al voto al massimo ad ottobre, promette tasse al 15% e nessun aumento dell'Iva con la «manovra già pronta», anche Di Maio come Zingaretti si affida a Sergio Mattarella.
Nel partito democratico tutti si appellano alla guida del Presidente. Il che vuol dire non chiudere la via a una soluzione alternativa alla corsa al voto in autunno. Su questo gli organi dirigenti del Pd potrebbero essere chiamati presto a decidere e partono già le conte e i riposizionamenti di corrente.
Intanto, l'ex leader dem è pronto a una scissione dei gruppi parlamentari per conseguire il risultato: la creazione di un nuovo governo. I numeri che in queste ore fanno girare i renziani sono poderosi: «Al Senato i 3/4 del gruppo, alla Camera più o meno la metà». Ovvero una quarantina di voti a Palazzo Madama e più di sessanta a Montecitorio. In questo calcolo, però, c'è anche la componente di Franceschini che Zingaretti sta cercando di staccare da quella di Renzi.
Il Pd diviso tra Renzi e Zingaretti
L'idea di Renzi di un governo di transizione per andare al voto nel 2020, per il quale ci sarebbero stati contatti tra renziani ed esponenti di FI, non trova sostegno netto fuori dall'ala renziana e turbo-renziana, mentre raccoglie anche qualche malumore tra i militanti più affezionati al "#senzadime". Ma se si guarda allo schema più ampio di un tentativo di costruire su un programma definito una maggioranza che freni la corsa delle destre e faccia alcune cose che servono al Paese, a partire da una legge di bilancio salva-conti, i consensi sembrano ampi nel partito. C'è l'apertura di Dario Franceschini, di Graziano Delrio, il sì di Matteo Orfini (purché si concordi un programma che includa anche temi come la cancellazione dei decreti sicurezza di Salvini) ma anche di zingarettiani come Roberto Morassut, che dice no alla soluzione «asfittica e mortale» per il Pd di un «governo istituzionale», ma apre a un «governo istituzionale vero di risanamento e riforme non a tempo».
E' una formula cui potrebbe aprire anche Zingaretti, che dice invece No a un governo di scopo. Il segretario sembra già guardare alle urne chiamando alla battaglia elettorale un mondo ampio che va dai sindaci di centrosinistra ad altri partiti e iniziative civiche. Con la discesa in campo di Matteo Renzi, però, il discorso si è spostato su un possibile governo istituzionale con M5s.
Dalla parte di Zingaretti c'è Carlo Calenda, neo europarlamentare. E anche l'altro ex premier Paolo Gentiloni è per il voto subito. «Ci aspettano prove difficili. Quando il gioco si fa duro i duri smettono di litigare», è l'invito pacificatore di Gentiloni. Sul fronte dei dubbiosi sulle urne subito ci sono anche i due padri nobili Walter Veltroni e Romano Prodi. Intanto Ettore Rosato lancia l'idea di una discussione e un voto dei gruppi parlamentari sulla linea.
Gli scenari politici possono rimescolare le carte, ma il rischio di non rielezione rema in questo caso a favore di Renzi. I parlamentari vicini a Zingaretti parlano di una direzione univoca su cui deve viaggiare il Pd, che dovrebbe comunque essere convocata a breve, magari in concomitanza con le consultazioni.