Dai dazi alla messa in scena messianica, dal disprezzo dei giudici all’adorazione per Musk, il nuovo show del presidente Usa è un concentrato di narcisismo, falsità e delirio di onnipotenza. E adesso vuole anche il conclave
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Il presidente americano Donald Trump (Ansa)
Donald Trump non è più solo un politico. È un personaggio da sacra rappresentazione postmoderna, una caricatura dell’onnipotenza che ha smesso di distinguere tra potere e delirio. Nel comizio dei suoi primi 100 giorni di secondo mandato, l’ex presidente diventato nuovamente presidente – uno di quegli eventi che sembrano partoriti da una brutta serie tv – si è superato. Ha detto: “Mi piacerebbe essere Papa”. E il fatto che lo abbia detto ridendo non attenua l’inquietudine. Perché quando Trump scherza, spesso è solo la forma più rozza della sua volontà di potenza. E perché, nei fatti, lui Papa lo è già. A modo suo. Non guida la Chiesa, ma si comporta da infallibile. Non predica Vangelo, ma pretende obbedienza. Non assolve, ma scomunica chiunque non lo adori.
In Michigan, davanti alla solita folla acclamante, ha parlato come fosse il Redentore della politica americana. Ha detto che i suoi sono «i 100 giorni di maggior successo di qualsiasi amministrazione della storia». Ha liquidato i sondaggi che lo danno al 39 per cento – il dato peggiore in 80 anni – come “falsi”. E ha accusato i giudici di sabotare la sua missione. Non ci sono fatti, non c’è logica, non c’è contraddittorio. C’è solo un uomo che si autoproclama il più grande di tutti i tempi, e guai a chi non lo crede.
Come sempre, ha alternato promesse da venditore porta a porta a deliri da monarca assoluto. Ha detto che chi non riporterà le fabbriche in America “verrà massacrato”, che i dazi sulla Cina sono “meritati”, e che il mondo sta vivendo “una rivoluzione del buon senso” – naturalmente la sua. Ha dato la colpa dell’inflazione al presidente della Fed, Jerome Powell, preparando il terreno per il solito scaricabarile, e ha salutato la caduta degli ingressi di migranti come un successo storico: “Solo tre persone sono entrate”. In realtà le deportazioni sono inferiori a quelle registrate sotto Biden nello stesso periodo, ma da tempo la realtà non è più nemmeno un fastidio per Trump: è semplicemente irrilevante.
Poi ha affondato il colpo con la battuta sul papato. «Mi piacerebbe essere Papa. Sarebbe la mia prima scelta». Forse era un modo per lusingare l’elettorato cattolico. Forse era solo l’ennesima provocazione. O forse era – come spesso succede con Trump – una verità pronunciata ridendo. L’idea che lui, l’uomo che ha stracciato ogni regola, attaccato ogni istituzione e promosso il culto del sé sopra ogni altra cosa, possa anche solo pronunciare la parola “Papa” senza arrossire, dice tutto. Non è ironia: è blasfemia politica. Perché il potere, per lui, non è mai abbastanza. E se può avere l’America, perché non anche il Vaticano?
Nell’ultima ora di delirio ha elogiato Musk, ha rivendicato la difesa della festa di Colombo (“salvata” da minacce inesistenti), e ha scherzato su un terzo mandato. E a chi gli ricorda che la Costituzione non lo prevede, lui sorride come se le leggi fossero optional. Perché nel mondo di Trump, tutto è un’asta in cui vince chi urla di più. La verità è flessibile. La legalità, negoziabile. La democrazia, una passerella da calpestare a piacimento.
Trump non vuole essere il Papa. Lo è già. Nella sua testa, nel suo culto della personalità, nella corte di consiglieri e fanatici che pendono dalle sue labbra come se fossero versetti. Lo è per quella fetta di America – numerosa, rumorosa, armata – che lo segue come si seguono i profeti. E quando un uomo che ha tentato un colpo di Stato mediatico, che ha incitato l’assalto al Congresso, che disprezza la magistratura, l’informazione, la scienza e l’etica, si permette di scherzare sul soglio di Pietro, non fa ridere. Fa paura.