«Attenzione a innamorarsi dei leader tanto più se autoritari», Francesco Raniolo, professore di Scienza politica al Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Unical cerca di regolare il diaframma sulla crisi ucraina che sta togliendo il sonno a mezza Europa. «Quando parliamo di crolli di grandi imperi le questioni non sono mai semplici, tendono ad aggrovigliarsi oltremodo ed è complicato capire chi ha ragione o torto, perché il confine è sempre sfumato. Il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 ha posto un dilemma su scala internazionale che riguarda, da un lato, l’autodeterminazione dei popoli, con tanti Paesi che dopo 70 anni di regime autoritario hanno rivolto il loro sguardo ad Occidente e, dall’altro, la ragion di Stato, manifestazione della politica di potenza.

Con il passar del tempo tale dilemma è diventato sempre più irrisolvibile, tanto più ci si avvicinava ai confini orientali dell’Europa dell’Est. L’ultimo Putin sta rispolverando una visione patriottica-nazionalistica della politica interna ed estera del suo paese, non priva di aspetti paranoici. L’idea di Grande Russia, ritorna ad essere centrale in una strategia neo-imperiale che dà nuova luce a temi e miti della tradizione zarista, coinvolgendo anche la chiesa ortodossa, e alla ricerca dell’egemonia nello spazio geopolitico dell’ex Unione Sovietica. La questione è complessa per la Russia, è in gioco una sfida che attiene alla sicurezza, e all’egemonia politica ed economica anche su scala globale».

In Ucraina la situazione, il meltin’ pot con l’Occidente, ha creato spiriti diversi che, come spesso accade, vanno in conflitto. «In questa tenaglia tra autonomia e controllo, tra spinte verso l’Occidente e contro-spinte slave è rimasta imbrigliata l’Ucraina. Un po' è l’esito della storia lunga. Ma anche di quella breve, già dal 2014, con le tensioni prodotte dalle proteste contro il governo filo russo del Presiedente Janukovyc e le conseguenti tensioni che portarono all’occupazione della Crimea e alla rivendicazione separatista delle due regioni del Donbass (una situazione simile a quanto accaduto dieci anni prima con la rivoluzione arancione, ancora una volta la sollevazione popolare contro il governo filo Putin).

Nel 2022 l’apertura verso l’Europa e la Nato del governo Zelensky ha finito per fare da leva all’invasione di Putin. In questo quadro, la questione delle due regioni russofone del Donbass e del rischio di violazione dei diritti dei cittadini russofoni è stata il pretesto per scatenare l’invasione. Le terre di confine sono sempre fonti di tensione, non è un discorso che riguarda solo l’Est Europa. Si pensi a quanto accade in giro per l’Europa occidentale. Così come le divisioni etniche e territoriali interne anche alle democrazie occidentali sono foriere di spinte centrifughe (si pensi alla Catalogna). La questione separatista, delle minoranze etniche e territoriali, è stata gestita per lo più ricorrendo a forme federative, di autonomia speciale (si pensi, per esempio alla Val D’Aosta o al nostro Trentino).

D’altra parte, le risposte nazionaliste (assimilatorie) sono sempre limitative perché se da un lato fanno gioco alla parte che le promuove, dall’altra hanno conseguenze devastanti per le minoranze. Ma nel caso in oggetto, come dicevo, si è trattato di un pretesto (il riconoscimento della sovranità della Repubblica del Donetsk e del Lugansk il 21 febbraio scorso). Ciò, del resto, è ben evidente dalla strategia militare dispiegata che ha colpito l’Ucraina dal Mar Nero e dalla Crimea, dalla Bielorussia e dal Donbas. Gli attacchi, anche per gli obiettivi che avevano e le modalità tattiche, non rispondono a una logica rivendicativa, ma di invasione. Un disegno neo-sovietico volto a destabilizzare l’Ucraina e magari istaurare un governo fantoccio filo-russo. Il nazionalismo è solo un ingrediente di questa più ampia strategia».

Ed è proprio il nazionalismo a spingere verso estremi che finiscono per causare divisioni e spargimenti di sangue. «La politica internazionale - continua il dicente - da Tucidide a oggi, è basata sul dilemma irrisolvibile tra forza e diritto, tra la ragione degli argomenti e la ragione della potenza, e ha una faccia belluina che va addomesticata. L’errore peggiore che possiamo fare è quello di non renderci conto delle dinamiche si muovono sotto certe scelte».

In merito alla situazione attuale, Raniolo immagina uno scenario bellico non a lungo termine. «Un conto è iniziare una guerra, più o meno lampo, magari condotta con l’ausilio di nuove tecnologie, altra cosa è il consolidare un’occupazione, come ha dimostrato la storia recente dell’Afganistan. Questa guerra calda lascerà ben presto il passo ad altro, ma gli effetti li ha già prodotti in termini di crisi economica, basti pensare all’inflazione prodotta dalla crescita dei prezzi di beni cruciali (gas ma anche grano), e questo accade dopo la crisi economica del 2008 e quella prodotta dalla pandemia.

A queste poi vanno aggiunte le crisi umanitarie prodotte dalle ondate di rifugiati, e quelle prodotte dalle spinte nazionalistiche che renderanno la politica europea dei prossimi anni sempre più confluttuale. Infine, non va dimenticato che tutto ciò indebolisce lo “spirito della democrazia”. Già da un quindicennio, come riportano i rapporti annuali di Freedom House, si sta registrando un declino della democrazia e della cultura democratica in giro per il mondo. La Russia di Putin è uno dei protagonisti di questa regressione, anche da un punto di vista delle teorizzazioni sulla fine del liberismo che il Cremlino sostiene. Ungheria, Polonia (questa meno rispetto agli altri) dentro l’UE, ma anche Albania, Serbia, Bosnia sono tutti casi di semi-democrazia per Freedom House (rapporto del 2021). Quindi crisi democratica e dell’ordine internazionale vanno a braccetto e si rafforzano reciprocamente».  

Le tensioni, le vecchie ruggini, tra Russia e Usa viaggiano da sempre anche sul filo delle suggestioni. «La politica è fatta in gran parte da simboli e immagini. È sempre stato così dai tempi di Machiavelli: le grandi narrazioni, la costruzione dell’immaginario collettivo, insomma le ideologie, sono importanti in politica, ieri come oggi. Tant’è che i grandi regimi autoritari hanno sempre controllato i media e la scuola. Al di à della propaganda tanto più in tempo di guerra, la questione è più generale. Per esempio Alberto M. Banti, in “La democrazia dei follower”, spiega come la politica delle major americane, che producono film e serie tv, si muova sempre più nella direzione dell’ideologia neoliberista e nell’indottrinamento di massa. Si pensi anche film patrocinati direttamente dalle forze armate, a partire da Capitan America. Lo stesso accade nella Russia di Putin o nella Cina di Jinping. Il potere produce simboli che devono essere ammirati e creduti e, in questo modo, crea consenso».