Non è stato certo facile accedere al round finale: solo 90 dei 750 ce l’hanno fatta. Sono loro a detenere il titolo di ‘Mafiosi più pericolosi d’Italia’, selezionati dai magistrati di tutte le direzioni distrettuali antimafia coordinati dal procuratore nazionale Franco Roberti e trasferiti nel nuovissimo carcere ‘Bacchiddu’ a pochi km da Sassari.

 

Tra loro nomi prestigiosi, capi e sicari di Cosa nostra, camorra e ‘ndrangheta: Leoluca Bagarella, (cognato di Totò Riina), Giuseppe Piddu Madonia, Filippo Guttadauro (fratello del boss di Bagheria), il camorrista Pasquale Zagaria, Francesco Schiavone, cugino omonino di Sandokan, Salvatore Messina Denaro, Domenico Gallico. Fra i calabresi, tra gli altri, presenti Francesco “Ciccio” Pesce e Giuseppe Pelle. Questi per citarne qualcuno dei più ‘celebri’.

 

Ognuno ha la sua indipendenza e dunque la sua camera: certo ha solo 12 metri per cercare di districarcisi all’interno, non ha la possibilità di avere contatti con altri reclusi o di comunicare con l’esterno, assisterà e interverrà ai processi solo in videoconferenza, ma questi sono solo particolari. Dimenticavamo, i detenuti hanno il divieto di cuocere cibi, per non considerare i mille ostacoli alla possibilità di studiare, leggere, informarsi, sostanziale assenza di attività ricreative, una sola ora al mese di colloqui con i familiari e dietro a un vetro divisore. 

 

E il percorso rieducativo? - Le persone trasferite erano detenute da molti anni in carcere e provenivano (teoricamente) da percorsi rieducativi finalizzati al futuro reinserimento nella vita sociale. Perché, ricordiamolo, il carcere per legge è finalizzato alla rieducazione, altrimenti è incostituzionale. E invece queste persone sono state sostanzialmente e coattivamente regredite attraverso una misura punitiva che comporta ulteriori e più stringenti afflizioni e limitazioni.

 

Un cambiamento radicale e non positivo per i detenuti che non l’hanno presa affatto bene: Bagarella quando si è accorto della natura del trasferimento ha cominciato a protestare, e non di certo in modo pacifico. E anche gli altri 89 hanno reagito con irritazione, trattando male gli agenti e il direttore del carcere, che è una donna, Patrizia Incollu sostenendo di essere vittime di un’ingiustizia. Dunque, alla luce dei fatti, il percorso rieducativo dove è finito? Francamente, ci viene difficile credere che tutte le restrizioni e tutti i divieti rispondano solo ad esigenze di prevenzione e di sicurezza.

 

‘L’isola dei reclusi’ - Ad ‘aprirci le porte’ del carcere “Bacchiddu” è un’inchiesta di Lirio Abbate pubblicata su “L’Espresso” qualche settimana fa. Si tratta di struttura in cemento armato costruita nelle campagne della frazione di Bancali a otto chilometri da Sassari, intitolata a un agente della polizia penitenziaria, Giovanni Bacchiddu, ucciso nel 1945 mentre tentava di fermare un’evasione. La struttura inaugurata due anni fa pensata e realizzata per applicare la legge sui boss detenuti sottoposti al 41 bis, il duro regime riservato ai più pericolosi criminali mafiosi viene definita la ‘condanna delle condanne’, l’incubo di ‘ndranghetisti e camorristi. Qualche mese fa il capo dei Casalesi, Michele Zagaria, detenuto nel penitenziario di Opera, ammesso davanti ai giudici del tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha raccontato in un video collegamento di vivere in «una situazione disumana» al 41 bis.

 

Ragionamento che non si discosta molto dal parere del senatore Luigi Manconi da sempre impegnato sul fronte della tutela dei detenuti che all’Espresso così parla: "La verità è che il 41 bis non dovrebbe costituire un regime crudelmente afflittivo, ma perseguire uno scopo strumentale: impedire la relazione tra il detenuto e l’organizzazione criminale. Si pensa, invece, che tanto più alto è il profilo delinquenziale del detenuto, maggiore deve essere la durezza della pena. Tutte le misure finalizzate a impedire quel collegamento con l’esterno sono legittime, ma non quelle che rendono più intollerabile la pena. Per quale motivo, ad esempio, viene ridotto il numero di quaderni acquistabili o viene impedito di dipingere nella propria cella? E perché mai i dieci minuti di incontro col figlio minore vengono sottratti all’ora mensile di colloquio con i familiari? Queste sono misure inutilmente persecutorie".

 

Non la pensa allo stesso modo il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri: “E’ senza dubbio una svolta per contrastare la criminalità: isolare e rendere inoffensivi i leader dei clan è stato un punto di svolta. Come le grandi organizzazioni finanziarie anche la cosca può funzionare con una cabina di regia distante dal luogo dove avvengono le “produzioni” criminali. Dunque un capo anche dalla cella può gestire grandi interessi: stabilire alleanze, dichiarare guerre, selezionare obiettivi da colpire. È questo flusso di comando che va interrotto. Poi vi è una ragione simbolica: rendere il boss incapace di governare, disorienta gli accoliti rimasti in libertà”.

 

"Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”: così recita la Costituzione. Invece a Bancali tutto il mondo dei detenuti finisce tra poche decine di metri, e chissà se mai ne inizierà uno nuovo.